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Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab gen 19, 2008 8:58 am


  • Il discorso che il Papa avrebbe pronunciato durante la visita all'Università La Sapienza
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Magnifico Rettore, Autorità politiche e civili, Illustri docenti e personale tecnico amministrativo, cari giovani studenti!

È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo.

Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".

Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere. Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica.

La parola "vescovo"– episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante" – già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità.

Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza.

Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione.

A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.

È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere - vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa. Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa che qui non dobbiamo sviluppare.

Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti.

Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono - lo sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità.

È merito storico di san Tommaso d’Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.

Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma. Con ciò ritorno al punto di partenza.

Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.
  • Benedetto XVI, 16 gennaio 2008
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab gen 19, 2008 9:17 am


  • La preghiera cuore del dialogo
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Cento anni fa un prete presbiteriano a New York si fece promotore di un’iniziativa destinata a dare un volto nuovo ai rapporti tra le diverse confessioni cristiane: l’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Quell’appuntamento si ripete ogni anno dal 18 al 25 gennaio e, nell’«edizione del centenario» che si apre oggi in tutto il mondo, torna proprio sul tema che è stato il motore dell’iniziativa fin da principio: la preghiera. «Pregate continuamente », infatti, è il passo tratto dalla Prima lettera ai Tessalonicesi di san Paolo che fa da sfondo a questa settimana e da titolo al sussidio redatto da una commissione interconfessionale negli Stati Uniti, edito in Italia dalle Paoline e dal Centro «Pro unione». Del significato di questi giorni e del loro nesso con il cammino ecumenico nel mon- do e nella nostra Penisola parla monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di TerniNarni-Amelia e presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo.

«Nella coscienza dei cristiani – spiega – la preghiera rappresenta il punto più immediato e più alto del cammino ecumenico. Una consapevolezza ben visibile nella svolta del Concilio Vaticano II, che segnò l’inizio della preghiera comune con le altre confessioni: nei decenni precedenti essa era vietata, ma Paolo VI, all’ultima sessione del Concilio il 4 dicembre 1965, pregò nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura assieme a tutti gli osservatori delle altre confessioni cristiane.

  • Scegliere il tema della preghiera è quindi un modo per ritornare al «cuore» del cammino ecumenico?
Certo: il tema scelto ridona a questa Settimana per l’unità la sua vocazione precipua. La preghiera comune, anche se non è possibile ancora in tutti i luoghi, è l’aspetto ecumenico più ampio tra le Chiese cristiane: essa ci fa gustare già da ora la bellezza di quella unità che purtroppo non è ancora stata pienamente realizzata. Ovviamente la preghiera non cancella le divisioni ma rappresenta un fermento che ci spinge ad andare avanti sapendo che l’unità è un dono di Dio e a lui va chiesta.

  • Quali gli atteggiamenti da coltivare nel dialogo ecumenico?
Vanno evitati ingenuità, compromessi e rassegnazione: il dialogo corre essenzialmente su due binari, quello della verità e quello dell’amore. Non ci può essere unità senza una comune verità della fede, ecco perché sono fondamentali i dialoghi teologici, i documenti e le dichiarazioni comuni tra le diverse confessioni da quella del 1999 sulla dottrina della giustificazione con i luterani fino al documento di Ravenna con gli ortodossi. L’amore, poi, costituisce il fondamento della verità e fornisce uno spazio di azione comune: laddove è possibile che i cristiani operino assieme è necessario farlo. Si pensi all’ambito della carità, dell’impegno per la pace, della salvaguardia del creato ma anche gli incontri e la preghiera comune. Sono tutte dimensioni dove , davanti al mondo, dobbiamo mostrarci uniti. L’ecumenismo non è una questione di uffici ma è un modo di vivere la fede, fa parte della sequela di Gesù.

  • Che cosa ha significato la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu?
È stata una tappa significativa perché è stata vissuta come un itinerario nella profondità delle singole tradizioni con un atteggiamento di rispetto reciproco. A Sibiu si è manifestato con la sua ricchezza e con i suoi problemi il volto del cristianesimo europeo. Il messaggio al continente è stato forte: esso deve riscoprire le sue radici cristiane. Del resto nei confronti di tutto il pianeta il movimento ecumenico ha la responsabilità di indicare la via della fratellanza, una dimensione fondamentale nella pace tra i popoli come anche nell’incontro tra religioni. E nel dialogo tra fedi il Papa, per merito dell’opera di Giovanni Paolo II, ha di certo un primato spirituale: lui ha permesso e continua a permettere l’incontro.

  • Che cosa rispondere a chi parla di «inverno dell’ecumenismo»?
Non si può stare a misurare il termometro o la stagione, l’ecumenismo è un organismo vivo e come tale non è riducibile a parametri scientifici. Noi cristiani dobbiamo fare tutto il possibile e lasciare a Dio ciò che solo Lui può fare. Ciò che va evitato è il ripiegamento delle Chiese su se stesse, con il rischio di mettere altre questioni secondarie davanti all’ecumenismo.

  • E in Italia?
In Italia esiste una vivacità notevolissima nelle diocesi, che sono tra le più attive nel mondo in campo ecumenico. Una vivacità che si è vista a Sibiu, dove i delegati italiani delle diverse confessioni hanno giocato un ruolo fondamentale. Le comunità cristiane italiane, poi, danno un’accoglienza straordinaria ai cristiani delle altre confessioni tra gli immigrati. I segni di una vitalità sono diffusi anche nella nascita di diocesi di altre Chiese cristiane o di facoltà teologiche. Dopo Sibiu, inoltre, i delegati italiani si sono incontrati per trarre dall’Assemblea alcune conclusioni comuni.

  • Prossime tappe?
C’è in preparazione un Convegno nazionale intercristiano: sarà il quarto e verrà promosso dalla Chiesa cattolica sul tema della Parola di Dio. Un segno ulteriore di quella vivacità che alimenta il dialogo ecumenico in Italia.
  • Matteo Liut intervista monsignor Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni-Narni-Amelia,
    Presidente e Segretariato CEI per l'Ecumenismo e il Dialogo
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 25, 2008 3:26 pm


  • I poveri del Libano
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Mi chiamo Padre Damiano Puccini dell’Istituto dei Servi del Cuore Immacolato di Maria (con Casa Generalizia a Roma in Via di Villa Traili, 56) e presente in Libano. La nostra zona del centro sud (a 17 chilometri da Beirut) è continuamente martoriata dalle conseguenze dei vari conflitti dell’area mediorientale. Il problema principale è in ogni caso l’assottigliamento della presenze cristiana, sempre costretta all’emigrazione. Sono molto belli i gesti dei cristiani che in spirito di perdono compiono azioni di carità condividendo anche il loro necessario in favore dei più poveri, anche musulmani, sostenuti dalla confidenza in Dio, che si manifesta nell’accettazione positiva, con pazienza, di un situazione ingiusta.

Parlando con loro in questi giorni riflettevamo insieme su come siamo invitati a prendere esempio dal Bambino di Betlemme che sceglie volontariamente di nascere in una condizione umile e disagiata facendoci capire che anche la povertà e l’ingiustizia, quando sono accettate con la fiducia in Dio, diventano strade per fare il bene. Non è infatti la semplice carità materiale che può soddisfare tutto il desiderio di pace che si ha dentro, ma il primo dono che si offre a chi ha bisogno è la serenità e il sorriso con il quale si accompagnano gli aiuti donati per le varie necessità.

Bisogna molto lavorare anche sulle disposizioni interiori, per esercitare bene la carità. Come diceva Don Bosco ”Non basta solo fare il bene, ma bisogna anche fare bene, il bene“. Per questo motivo, il nostro istituto ha ricevuto la donazione di un terreno di circa 7000 metri quadrati situato in Baabdat, una zona completamente cristiana a 8 chilometri da Beirut nel quale poter realizzare un’opera spirituale e caritativa. La formazione dei nostri volontari che si impegnano nell’aiuto ai più poveri, le varie iniziative religiose e culturali e, chiaramente lo spazio per accogliere i più bisognosi, secondo le diverse fasce di età e di necessità per un aiuto più stabile e permanente, sono le finalità di questo progetto. Già da tempo infatti siamo in contatto con altri gruppi di volontari che sono alla ricerca di luoghi come questi per poter ospitare malati, molti dei quali purtroppo giovani, che non trovano accoglienza nelle strutture pubbliche sempre più costose.

Recentemente ho seguito il caso di una famiglia che ha avuto problemi nel pagamento delle spese sanitarie in ospedale e che ha offerto una quota fissa in favore dei poveri, per avere le forza di accettare questa prova.

Ieri sono andato con due volontarie a visitare una famiglia molto povera, che vive in una casa molto umida e che non ha i soldi per il riscaldamento. Questa signora che conosco da tempo, molto generosa, ha voluto donare per Natale ai nostri volontari una confezione di succhi di frutta a testa, per ringraziarli della vicinanza nel momento della morte del padre, avvenuta nel corso dell’anno (i nostri giovani si rammaricavano del fatto di non arrivare a comprare un vestito nuovo al figlio e gli hanno regalato solo un paio di scarpe).

Ho saputo poi, che una signora che raccoglie con molta costanza aiuti tra le famiglie del paese, anche tra le più disagiate, in favore dei poveri ha rimandato di comprare un armadio per la propria casa, donando il suo denaro per l’acquisto di medicinali urgenti che servivano ad una famiglia bisognosa.

Per il sostegno e la formazione di questi volontari e anche dei poveri assistiti, chiediamo a tutti un gesto di generosità in favore di questa erigenda Opera in Baabdat. Nonostante che la crisi economica sempre di più causi gravi conseguenze sulla minoranza cristiana (un giovane padre di 4 figli è dovuto andare a lavorare in Africa per mantenere la famiglia, sono molti i casi come questo) la nostra Opera è già sostenuta dalla carità offerta da queste famiglie bisognose.

Chi è interessato a maggiori informazioni o a conoscere le modalità per un contributo in favore della nostra opera da far giungere sul posto, può chiamarmi al 333/5473721 o inviare un vaglia a
Sarò in Italia da Pasqua alla metà di maggio e sono disponibile a venire per una Santa Messa o un incontro.
  • padre Damiano Puccini
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 31, 2008 3:29 pm


  • Cina: la drammatica autobiografia di un dissidente
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Sopravvissuto a 19 anni di dura prigionia nei gulag cinesi, dove ancora oggi sono rinchiuse milioni di persone, Harry Wu sogna di «poter vedere una Cina libera e giusta».

«Era il novembre 1961. Per la terza volta, nei campi di lavoro pensai a Dio. Lo pregai di accogliere Chen Ming: "È uno del tuo gregge, tornato per stare con Te nello splendore del Tuo amore". Nessuno nella stanza mostrò interesse alla sua morte. Ero l’unico rimasto seduto. Che valore aveva la mia vita? Perché continuava? Fare del mio meglio o del mio peggio non significava comunque nulla. Prima di domani poteva essere tutto finito. Tornai a sdraiarmi e mi avvolsi nella coperta. In qualche modo non volevo cedere, non volevo arrendermi. Qualcosa dentro me gridava: dov’è il mio Dio, mio Padre? Aiutami. Guidami. Poi la mia mente si svuotò».

Harry Wu aveva già visto tanto orrore e tanto ne avrebbe ancora visto in seguito. Nato a Shanghai nel 1937, terzo di otto figli, Harry Wu (in cinese: Wu Hongda) è sopravvissuto a 19 anni di dura prigionia trascorsi nei laogai, una sigla che sta per laodong gaizao dui e significa "riforma attraverso il lavoro". Quell’esperienza è diventata un libro, pubblicato in questi giorni nella sua traduzione italiana (Controrivoluzionario, Edizioni San Paolo, 424 pagine, 22 euro) frutto della collaborazione con Carolyn Wakeman, docente di giornalismo e studi internazionali presso l’Università della California, a Berkeley.

«Il nostro stile di vita, tipico della classe medio-alta occidentalizzata di Shanghai, rifletteva l’educazione di papà a cavallo tra due culture», esordisce Harry Wu. «Nostro padre (un banchiere, ndr.) decise di far frequentare ai suoi figli le scuole gestite dai missionari. Nell’autunno del 1948 mi mandò alla St. Francis School. Uno degli insegnanti mi assegnò il nome inglese "Harry" la prima settimana di scuola. Nel 1950, fui prima battezzato e poi cresimato».

Con la vittoria di Mao e l’avvento del comunismo, la St. Francis cambiò nome, diventando "Scuola primaria del Tempo", i sacerdoti stranieri dovettero lasciare il Paese, alcuni chierici cinesi vennero arrestati e a ogni classe fu assegnato un istruttore politico che insegnava la teoria marxista-leninista. Finite le superiori, Harry Wu voleva studiare fisica o chimica. «Ma nella primavera del 1955», spiega, «una serie di articoli pubblicati sui giornali mi fecero cambiare idea. Senza geologi che scoprissero in Cina depositi di minerali, petrolio e carbone, la costruzione socialista non avrebbe potuto andare avanti. Senza geologi che studiassero il terreno, ponti, dighe e ferrovie non avrebbero potuto essere costruiti. Quando, a luglio, sostenni gli esami di ammissione all’università, compilai l’apposito formulario nazionale indicando l’Istituto di geologia di Pechino come prima scelta». Che l’accettò. E fu proprio lì che cominciarono i suoi guai.

Nel 1957, infatti, aveva criticato il Partito comunista: segnalandone ingiustizie e soprusi aveva aderito alla Campagna dei Cento Fiori promossa per altro dallo stesso Partito comunista al fine di "correggere i suoi precedenti errori". Il movimento di rettifica, fu detto, sarebbe stato condotto «con la stessa gentilezza di una brezza o di una lieve pioggia». Falso. Harry Wu venne etichettato come "nemico del popolo". Marginalizzato per oltre due anni dentro l’università, il 27 aprile 1960 fu arrestato. «In rappresentanza del Governo popolare di Pechino», dichiarò un funzionario di Pubblica sicurezza, catturandolo in un’aula dell’ateneo, «condanno l’elemento di destra e controrivoluzionario Wu Hongda alla rieducazione tramite il lavoro».

Benché mai formalmente sottoposto a processo, Harry Wu ha trascorso quasi due decenni in un infernale mondo nascosto di lavori umilianti, botte, torture prolungate, progressivo abbruttimento, squarci improvvisi di umanità e di aiuto reciproco. Harry Wu ha faticato nelle risaie, nelle campagne e nelle miniere, girando numerosi laogai dislocati in varie zone della Cina. Ha patito il freddo e, soprattutto, la fame. Si vide costretto a catturare di nascosto serpenti e rane pur di mettere qualcosa sotto i denti. Vide morire compagni di sventura perché denutriti, battuti fino alla morte, fucilati. O suicidi. Lui stesso rischiò la vita.

«Dopo essere stato rilasciato nel 1979», termina Harry Wu, «ho vissuto in Cina fino al 1985, anno in cui sono riuscito a espatriare negli Stati Uniti, dove vivo. In Cina, oggi, esistono più di 1.000 campi di lavoro forzato (nella postfazione il dato si fa più preciso: 1.045, ndr.), nei quali sono rinchiusi milioni di prigionieri. Spero nella mia vita di vedere una Cina libera e giusta, senza laogai. Morirò contento quando la parola laogai apparirà sui dizionari di tutte le lingue del mondo».
  • Alberto Chiara
_______


Questo libro merita di essere accostato ad Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzhenitsyn quale insuperabile e personale testimonianza di che cosa accadeva a milioni di uomini e donne innocenti.
  • Los Angeles Times
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...mentre i LAGER nazisti furono chiusi nel 1945 ed i GULAG sovietici sono in disuso dagli anni '90, i LAOGAI cinesi sono tuttora operanti...
  • Harry Wu
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 07, 2008 3:42 pm


  • Tornare alla sapienza del limite
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Nelle nostre società evolute, a quanto sembra, gli spiriti animali del godimento non si contentano più della loro dose quotidiana. La loro esosità eccede ormai la tenuta della nostra psiche collettiva. Altro che modica quantità. Quegli spiriti animali (con tutto il rispetto per gli animali veri) forzano il limite, fino al sacrificio dell’umano (il nostro, preferibilmente).

Nella società, come negli individui, la perdita del senso del limite (ossia la sua sostanziale ignoranza, che astuti venditori cercano di piazzare come audacia creativa) può accendere attimi di esaltazione, ma spegne l’entusiasmo per generazioni. Una cultura che decida di coltivare tale ignoranza, addolcendone l’incoscienza, rende lo sconforto che ne deve seguire endemico e incurabile. Non lo respiriamo già come una specie di smog dell’anima? Non sta già trasformando noi – i nostri figli! – in una specie mutante, straordinariamente eccitabile ma orribilmente anaffettiva?

Riconoscere i propri limiti, significa possedere l’alta sapienza che è necessaria per decidere da sé, in tutta scienza e coscienza, i modi della qualità umana. Possibilmente, prima che l’irresponsabilità delle nostre insipienti forzature ci imponga una sorta di anomala regressione zoologica e vegetale dell’ominizzazione. Mascherata chimicamente o ciberneticamente, finché si vuole, l’automazione è il contrario dell’autodeterminazione umana.

Il popolo cristiano, entrando nel tempo della Quaresima, ripete simbolicamente il gesto di iniziazione che ci restituisce alla sapienza più profonda del limite. E pertanto, alla signoria della libertà degna dell’uomo. Lo so che il simbolo è diventato uno slogan per esorcizzare il fastidio di facce smunte e deprimenti, o di periodi di precarietà e di penuria. A sentir noi, è sempre tempo quaresimale. Facciamo già fin troppi sacrifici. Vero. Però, con tutto il rispetto, ma proprio tutto, non scherziamo. Noi siamo nella parte del pianeta più ingozzata e ingorda che ci sia. Predichiamo di uno sviluppo sostenibile e razzoliamo nella religione dei consumi, non importa come. Ci stanno cedendo tutti i legami umani, consideriamo superate tutte le forme di coltivazione dell’anima, le trasformiamo in mere fonti di eccitazione senza pensiero. E provvediamo ossessivamente a un’unica iniziazione dei giovani: quella al godimento sicuro. E vogliamo passare per quaresimalisti forzati, come se il cristianesimo fosse fermo ai simboli del Medioevo? È del rischio di un binario morto della storia che parliamo, genti d’Europa. La Quaresima è l’ultimo simbolo di sobrietà volontaria e sovrana che ci sia rimasto. L’unica signorile sprezzatura del dogma libidico dell’anti-sacrificio a tutti i costi, al quale è diventato difficilissimo rifiutarsi di sacrificare in pubblico.

La sento l’obiezione: tutto questo avviene con sacrificio di molti però, anche qui, che sono sfruttati, demoralizzati, resi insicuri dalla frantumazione violenta di ogni limite. Compresi quelli che annodano legami di pace, combattono la disperazione, subiscono innocenti la loro disinteressata passione per la giustizia. E anche quelli che sanno e patiscono, per tutti, l’enormità degli inganni di cui si servono le potenze che cercano il ritorno dell’umano a pianta e ameba. Aggiungiamo anche i moltissimi che sperano ormai solo in una grande tregua della corsa al godimento, per poter crescere generazioni ancora capaci di spiritualità, di pensiero, di poesia. (Tutto questo, padri e madri della fede, è il mistero del peccato che fronteggiamo: non l’eccesso di cioccolatini). Di che parlavo, appunto? E di che parla, evocando l’abisso, una quaresima cristiana, oggi?
  • Pierangelo Sequeri
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 14, 2008 6:39 pm


      • Wiesel, notte della speranza
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Nel 1958 – esattamente cinquant’anni fa – usciva a Parigi in prima edizione francese un libro di memorie, rapido quanto intenso e sconvolgente, di un ex-deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, dal titolo La notte (edito da La Giuntina nel 1980). L’autore era un ebreo della Transilvania, che, scampato ai lager nazisti, dove aveva perduto padre madre e sorellina, si era stabilito a Parigi come giornalista corrispondente di un giornale di Tel Aviv.

Il testo, scritto direttamente in lingua yiddish, dieci anni dopo la drammatica esperienza, con il titolo «E il mondo rimase in silenzio», e tradotto prima in francese, e poi in inglese, era stato rifiutato dai grandi editori francesi e americani, ai quali il libro era stato presentato, «nonostante gli sforzi infaticabili del grande scrittore cattolico francese e premio Nobel, François Mauriac», come ricorda Elie Wiesel nella prefa­ione alla nuova edizione americana (Hill and Wang, New York 2006). Per renderlo più appetibile agli editori, il manoscritto era stato taglia­o. Elie ricorda il disincantato inizio che era e rimane tagliato: «All’inizio c’è la fede – che è infantile; la fiducia – che è vana; e l’illusione – che è pericolosa. Noi credevamo in Dio, avevamo fiducia nell’uomo e vivevamo nell’illusione che a ciascuno di noi fosse stata affidata una sacra scintilla della fiamma della Shekhina. Ma tutto questo fu la fonte se non la causa delle nostre disavventure».

Era stata tagliata anche la finale sconsolata: «E ora, a dieci anni scarsi da Buchenwald [l’ultimo lager in cui finì Wiesel], io mi accorgo che il mondo dimentica presto. Oggi la Germania è uno Stato sovrano. L’esercito tedesco è stato risuscitato [...]. Criminali di guerra passeggiano per le strade di Amburgo e di Monaco. Il passato sembra essere stato cancellato, consegnato all’oblio. Oggi ci sono antisemiti in Germania, Francia, e perfino negli Stati Uniti che dicono al mondo che 'la storia' di sei milioni di ebrei assassinati è nient’altro che una truffa [...]. Non sono così ingenuo da credere che questo esile libro possa cambiare il corso della storia o scuotere la coscienza del mondo. I libri non hanno più il potere che avevano una volta. Quelli che rimasero in silenzio ieri rimarranno in silenzio domani».

Non fu facile farlo accettare, ma finalmente le insistenze dell’autore e di Mauriac, riuscirono a collocarlo (con ulteriori tagli) presso una piccola, ma prestigiosa casa editrice Le Minuit di Parigi. L’editore francese si portava a casa un libro straordinario e un autentico bestseller. Non fu subito successo, come era stato, un decennio prima, per il Diario (1947) di Anna Frank, internata ad Auschwitz e inghiottita nella notte di Bergen-Belsen. Ma poi il libro fu scoperto ed ebbe un enorme successo. Il «New York Times» lo definì: «Un volume smilzo dal potere terrificante».

Il libro è uscito in una nuova edizione del 2006, identica alla versione abbreviata francese del 1958, ma in una nuova traduzione americana, approntata dalla moglie Marion «che conosce la mia voce e sa come trasmetterla meglio di qualsiasi altro».

La nuova edizione reca anche il discorso tenuto da Elie Wiesel ad Oslo il 10 dicembre 1986 in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace, dove la memoria si coniuga con la fede: «Io ricordo: è avvenuto ieri, o eternità fa. Un giovane ebreo scopriva il Regno della Notte. Ricordo il suo sconvolgimento, ricordo la sua angoscia. Tutto è accaduto troppo alla svelta. Il ghetto. La deportazione. Il carro bestiame sigillato. L’altare di fuoco sul quale si pensava di sacrificare la storia del nostro popolo e il futuro dell’umanità». Ma, insieme: «Io ho fede. Fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. E perfino fede nella Sua creazione. Senza questo nessuna azione sarebbe possibile».

Nella «Prefazione alla nuova traduzione » del 2006 Elie Wiesel scrive: «A volte mi domando se conosco 'la risposta ad Auschwitz'; io rispondo che non solo non la conosco, ma non so neppure se una tragedia di quella magnitudine abbia una risposta. Ciò che io so è che c’è 'risposta' nella responsabilità. Quando parlo di quell’epoca di male e tenebra, così vicina e tuttavia così distante, 'responsabilità' è la parola­chiave».

Il libro di Elie Wiesel contribuì a innescare una grande discussione tra i pensatori ebraici, cui parteciparono anche teologi cristiani, sull’interrogativo radicale: «Dov’era Dio?», come si esprimeva Mauriac nella sua prefazione, facendo riferimento alla pagina più impressionante del libro di Wiesel, dove si descrive l’impiccagione di un ragazzo. Nasceva un filone di riflessione che va sotto il nome di «teologia dell’Olocausto », e più recentemente, per non abusare di un termine biblico, di «teologia dopo Auschwitz».

Il nome di Auschwitz con il suo campo di sterminio evoca i sei milioni di ebrei (e tra questi un milione e mezzo di bambini) deportati, assassinati e gassati in quel campo dell’annientamento, e negli altri lager della follia nazista (1933-1945) – ma nel museo della Diaspora a Tel Aviv l’olocausto è datato dall’«anno 1933 dell’era cristiana» –, che «la teologia dell’olocausto» (termine biblico che significa distruzione totale della vittima mediante il fuoco) assume come cifra del male assoluto, e come fatto non comparabile con altri fatti storici nella 'tremendità' (Cohen) della sua disumanità.

La Shoah, e cioè la 'catastrofe' che si è abbattuta sul popolo ebraico, è assurda come nessun altro fatto storico. Ciò che evoca, per esempio, il nome di Hiroshima si potrebbe spiegare, se una qualche spiegazione è possibile, con la volontà di por fine ad una lunga guerra, ricorrendo ai mezzi più distruttivi della nuova tecnologia; quello che va sotto il nome di «Arcipelago Gulag» potrebbe avere una sua spiegazione nella eliminazione dei dissidenti da parte di un sistema politico dittatoriale; il sistema dell’apartheid in Sudafrica (e prima ancora il sistema della schiavitù nelle Americhe) si potrebbe spiegare con i vantaggi che un tale disumano sistema poteva portare con sé per una ristretta classe di privilegiati; ma il genocidio del popolo ebraico che senso poteva avere? Perché tanta disumana sofferenza?

Ha scritto Theodor W. Adorno in Dialettica negativa (1966): «La morte nei campi di concentramento ha un nuovo orrore: dopo Auschwitz la morte significa terrore, temere qualcosa di più orribile della morte». E, inoltre, fanno osservare i teologi ebraici, esso era diretto a sradicare dalla storia quel popolo, il cui genio religioso si era espresso nella Bibbia, il cui tema centrale è la presenza di Dio nella storia. Proprio questo popolo si voleva distruggere, il popolo dell’alleanza, il popolo che nelle sue feste celebra gli interventi di liberazione del Dio della storia. Benedetto XVI, il papa venuto dalla Germania, così si esprimeva nella sua visita all’ex campo di concentramento di Auschwitz il 28 maggio 2006, durante la sua visita in Polonia: «In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare solo uno sbigottito silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?».

Come osserva l’ebreo francese André Neher nella sua opera L’esilio della Parola (1970), dove il 'silenzio di Dio' nella 'Notte di Auschwitz' è messo in connessione con il tema del silenzio di Dio nelle pagine della Bibbia, «dal Fallimento di Auschwitz è scaturita la Speranza», e si citano alcune opere, che hanno introdotto il tema della speranza, come un grande tema della cultura della seconda metà del XX secolo, tra cui spicca Il Principio speranza (1959) di Ernst Bloch, che ha influito sulla teologia cristiana, la quale ha espresso Teologia della speranza (1964) di Jürgen Moltmann.

In un viaggio in Polonia nell’ottobre del 1962 Jürgen Moltmann, il teologo della speranza, come è noto in campo internazi­onale, visitò il campo di concentramento di Maidanek, e così descrive quella sua esperienza nell’Autobiografia, dal titolo Vasto spazio ( Weiter Raum. Eine Lebensge­schichte, Gütersloh 2006), pubblicata in occasione del suo 80° compleanno: «Provai lo sconvolgimento più profondo quando attraversammo il campo di concentramento e di morte di Maidanek, presso Lublin. I tavolacci delle baracche erano stati gli ultimi giacigli di persone affamate e tormentate. Dietro lastre di vetro giacevano le piccole scarpe dei bambini ebrei uccisi, i capelli tagliati delle donne gassate. Vedevamo le fosse nelle quali in un solo giorno erano state fucilate più di 10.000 persone. Sarei caduto a terra dalla vergogna e dallo sdegno e sarei rimasto soffocato dalla persistenza dello sterminio di massa, se su una delle strade del lager non avessi avuto una visione: vidi il mondo della resurrezione e vidi tutti quegli uomini, quelle donne e quei bambini venirmi incontro. Da allora so che la storia di Dio non si è interrotta con Auschwitz e Maidanek, ma che continua insieme alle vittime e ai colpevoli: senza speranza nella 'terra nuova, nella quale avrà stabile dimora la giustizia' (2 Pt 3, 13), questa terra, che ha patito Treblinka e Maidanek, sarebbe insopportabile».
  • Rosino Gibellini
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 21, 2008 10:35 am


      • Suor Eugenia e le consorelle: come una madre a riscatto delle prostitute
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Eugenia Bonetti è una suora di 70 anni. Come missionaria della Consolata ha passato 23 anni in Kenya. Poi è tornata in Italia. Una sera del giorno dei Morti, diversi anni fa, stava andando a Messa, quando l’ha fermata per strada una ragazza nigeriana. «Madre, voglio parlarle », fa la ragazza. «Vieni in chiesa con me, dopo mi racconti», risponde la suora – con quell’attitudine dei missionari a non stupirsi mai della faccia di chi li ferma per strada, e nemmeno dei vestiti che indossa. La sconosciuta era una prostituta portata in Italia come altre migliaia, per forza o per disperazione. Però, annientata dal suo “lavoro” di comprata e venduta, voleva liberarsi, e smettere.

È così che una piccola minuta suora lombarda allora verso la sessantina – l’età in cui gli altri vanno in pensione – comincia a mettere su una rete di 110 case di accoglienza gestite da suore di vari ordini, sotto la direzione dell’Unione superiori maggiori italiane. In dieci anni, da quando un articolo della legge sull’immigrazione consente a chi denuncia i propri sfruttatori un permesso di soggiorno per il reinserimento, nelle case e nei conventi di suor Eugenia sono passate cinquemila ragazze e in otto su dieci hanno trovato un lavoro, o hanno scelto di tornare in patria. Alcune, che erano incinte, il figlio se lo sono tenute – è bastato avere una faccia amica accanto. Migliaia di rumene, moldave, africane, venute qui a sedici anni a battere un marciapiedi, educate a una ferrea obbedienza dall’omicidio di qualche compagna trovata ammazzata di botte in una roggia, hanno ricominciato a vivere grazie a suor Eugenia e alle sue compagne. Ma, lo conoscevate il volto di quella suora, e il suo nome?

La cosa singolare è che in un mondo in cui si diventa famosi anche per una parolaccia detta in tv, donne così siano, al grande pubblico, quasi sconosciute. Una foresta che cresce non fa rumore, è proprio vero: migliaia di donne liberate dai loro “padroni” possono passare inosservate, come una notizia banale. Ma qualcosa affascina nell’operare di queste donne vestite di nero o di grigio, come invisibili, oppure viste solo nell’immagine stereotipata di chi le giudica delle moraliste, delle bacchettone, creature fuori dal tempo anacronisticamente sopravvissute nella modernità. Ciò che meraviglia è il loro fare pienamente concreto – concrete tanto da sapere accogliere e educare delle ragazze che pochi vorrebbero in casa; ma senza slogan, senza alcun rumore, senza alcun proclama mediatico. Un fare ostinato e invisibile, contro a un visibilissimo, assordante quotidiano rumore.

Sembra la cifra, questo lavorio silenzioso, di un approccio alla realtà che chiameremmo profondamente femminile, e pazienza se qualcuno se ne scandalizzerà. Un’attenzione concreta alla persona che si ha davanti: semplicemente a quella, che sia figlio, alunno, paziente, o una poveretta importata dall’Est come una cosa. Un’accoglienza all’altro che è poi declinazione in forme diverse di un’attitudine materna – altra espressione oggigiorno politicamente scorretta.

Il lavoro oscuro delle sorelle invisibili di suor Eugenia come di migliaia di altre, negli asili, negli ospizi, con gli extracomunitari, è una maternità - più forte ancora di quella carnale, giacché è più difficile amare un vecchio o una ragazza della strada, che tuo figlio. Una maternità, e questo spiega perché il mondo non se ne accorge. Ma anche perché, nel silenzio dei titoli, lo stesso mondo ne viene trasformato profondamente, alla radice, in ogni faccia accolta e amata.
  • Marina Corradi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 28, 2008 5:03 pm


      • È possibile oggi educare? Il problema, l’autorevolezza degli adulti
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La consegna, da parte di Benedetto XVI, della Lettera sull’educazione, da lui indirizzata un mese fa alla diocesi e alla città di Roma, sollecita la nostra attenzione su un problema che, ormai da tempo, inquieta non solo gli addetti ai lavori, ma perfino l’opinione pubblica più distratta: è ancora possibile educare?

Non si tratta solo dell’allarme destato, recentemente, dai ripetuti episodi di bullismo o di violenza che hanno avuto come protagonisti giovani 'normali', che avrebbero potuto essere i nostri figli. Ma più profondamente, osserva il Papa, di una 'frattura fra le generazioni', che rivela la 'mancata trasmissione di certezze e di valori' e dà luogo oggi a una vera e propria 'emergenza educativa'.

Davanti agli 'insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita', non si può evitare, talora, un senso di scoraggiamento. 'Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni' e guardare con nostalgia al passato.

In realtà, il problema educativo va ben al di là dei confini delle singole istituzioni. Se esso oggi è così complesso, le cause vanno cercate innanzitutto nel clima complessivo in cui la famiglia, la scuola, la Chiesa, si trovano a svolgere il loro delicato compito: 'Troppe incertezze e troppi dubbi, infatti, circolano nella nostra società e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Diventa difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita'.

Legato a questo, c’è però, aggiunge Benedetto XVI, un altro ordine di difficoltà: 'non pochi genitori e insegnanti sono tentati di rinunciare al proprio compito, e non riescono più nemmeno a comprendere quale sia, veramente, la missione loro affidata'. Il problema educativo, insomma, non riguarda solo i giovani, come spesso vorremmo credere, ma anzitutto proprio noi, gli adulti. Il venir meno di un orizzonte di valori condivisi, la difficoltà di credere ancora nella verità e nel bene, non colpisce solo i figli e gli alunni, ma i padri e i maestri, che non riescono più ad essere tali.

Da qui la necessità di ribadire con forza, come fa il Papa, che 'anche nel nostro tempo educare al bene è possibile'. In realtà, i nostri ragazzi 'non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita' e, dietro la loro apparente disinvoltura, sta un disperato bisogno di punti di riferimento, che non trovano più né in famiglia, né a scuola né, a volte, nella Chiesa stessa.

Perciò il primo dono di cui hanno bisogno è quello, che solo la famiglia può dare, di un clima di autentico amore. Di qui può scaturire un serio impegno, da parte dei genitori, nell’indicare con chiarezza ai figli dei criteri per distinguere il vero dal falso, il bene dal male, nonché la fermezza nel farli rispettare nella pratica.

Quanto agli insegnanti, Benedetto XVI sottolinea l’enorme importanza del loro ruolo, troppo spesso sottovalutato, che 'non può limitarsi a fornire delle nozioni e delle informazioni, lasciando da parte la grande domanda riguardo alla verità'. Una scuola che si riducesse a trasmettere delle conoscenze tradirebbe il suo compito educativo, volto non soltanto a una maggiore preparazione, ma alla crescita globale delle persone.

Anche la comunità cristiana è chiamata a rinnovare il suo impegno in questo senso. Il Papa in particolare richiama all’urgenza che in essa tutti coloro che hanno un ruolo formativo sappiano essere per i giovani 'amici affidabili' e 'testimoni sinceri'. Nulla può sostituire il rapporto personale tra l’adulto e il giovane, purché sia fondato sull’autorevolezza.

Anche agli educandi il Papa rivolge il suo invito: sappiano essere, in libertà, artefici della propria crescita morale, culturale e spirituale. Ma forse siamo soprattutto noi, gli educatori, che dovremmo riflettere a lungo su queste parole di saggezza.
  • Giuseppe Savagnone
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mar 06, 2008 3:04 pm


      • Discreti nel seminare il bene
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Una «pagina nera» della storia, della cultura e un «macigno» sulla strada di quanti vogliono «un serio dialogo» tra laici e religione. È l’osservazione – e la facciamo nostra – di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, dopo l’annullamento della visita di Benedetto XVI all’Università degli Studi "La Sapienza", che su invito del rettore avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio. È stata un’occasione mancata per tutte le intelligenze e le coscienze libere. A provocare la rinuncia del Papa la lettera dei 67 docenti che avevano chiesto di non permettergli di intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Roma e la gazzarra inscenata da una minoranza settaria, vociante e scomposta di studenti.

Tutti, invece che attingere l’acqua pulita dell’intelligenza, hanno optato di pescare – sono parole del mite don Tonino Bello – «nel fango di antiche sedimentazioni laiciste e di pregiudizi culturali fuori moda». Ne è spia l’evocazione a sproposito della laicità, che è l’esatto opposto dell’intolleranza, del pregiudizio, della petulanza ripetitiva, della chiusura al confronto. Ci viene da dire, celiando (ma non troppo), che la questione della laicità – e laico non è, con buona pace di Marcello Pera, il non credente o il non cattolico – è troppo seria per lasciarla in mano ai laicisti.

Dopo il "caso Sapienza" si è certamente aperta una ferita soprattutto per quanti vogliono passare dalla "cultura della differenza" alla "convivialità delle differenze", senza per questo cadere in forme di eclettismo nei riguardi della verità o di indifferenza di fronte ai valori della vita. «La fede», diceva proprio alla Sapienza nel 1990 l’allora cardinale Ratzinger, «non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande». A questo impegno Jesus non si è mai sottratto e non vuole farlo neppure in questi "giorni cattivi", per dirla con il priore di Bose, Enzo Bianchi.

Per questo come cristiani non possiamo arrenderci alle strumentalizzazioni della nostra fede. In che altro modo leggere, anche in questa circostanza, la «sfilata indecorosa» dei politici tesa a offrire ai taccuini dei giornalisti e in favore di telecamera interessate e incoerenti annotazioni? Non possiamo barattare, con logiche mercantili, le regole auree dei discepoli di Gesù, quella del granello di senape e del chicco di grano. Nessuno può usare la fede come arrotino di spade o cava per parole come pietre. Quando ci si confronta con gli altri, non è ammissibile l’intolleranza, né l’accaparramento o la smania dell’omologazione. «Occorre essere discreti anche nel seminare il bene», scriveva l’indimenticato direttore di Famiglia Cristiana, don Giuseppe Zilli.

La sfida della testimonianza cristiana non si gioca creando il muro contro muro, ma piuttosto formulando risposte convincenti alle sfide del momento storico, senza soffocare la radicalità del Vangelo né svenderla a quanti la identificano come una trincea in cui nascondersi per attendere l’attacco del nemico. I cristiani devono essere capaci di trarre dalla fede ispirazione, forza e stile. Spesso – ci viene da dire, ripetendoci – manca proprio lo stile.
  • Vincenzo Marras
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mar 13, 2008 12:05 pm


      • Con la scusa dell'omofobia
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Gli episodi di bullismo nelle scuole italiane continuano a moltiplicar-si: devastazioni di aule e scuole, prepotenze e violenze sui deboli e diversi, siano essi timidi e studiosi o immigrati. Se ne discute molto, sui giornali e in televisione, dove gli «esperti» sono convocati per trovare rimedi. Dal momento poi che ai ra-gazzini timidi o impacciati viene ripetuto come insulto che sono omosessuali - con pregiudizi ignobili che vogliono la mascolinità dimostrata e confermata solo dalla violenza - questi comportamenti vengono spesso classificati come «omofobici». Allora, per educare i teppisti che vessano i deboli con insulti del genere, si propone una educazione alla «diversità omosessuale». Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, per esempio, sono diffusi libretti per bambini in cui al tradizionale matrimonio fra il re e la principessa viene sostituito quello fra il re e un altro re, mentre il finale «e vissero felici e contenti» rimane inalterato. Ha così avuto molto successo la storia di due pinguini maschi che si amano e cominciano a covare una pietra come se fosse un uovo, suscitando la pietà del custode che la sostituisce con un uovo vero per la gioia finale dei pinguini. E l'idea che si possa eliminare la violenza contro i diversi spiegando che «diversi è bello» è stata applicata anche agli immigrati: sui giornali sono comparse storie di ragazzi rom che vincono dottorati per cancellare le cronache quotidiane ben più tristi e drammatiche.

Ma è questa la strada giusta? Si elimineranno gli eccessi violenti spiegando che le vittime abituali delle prepotenze sono buone e simpatiche? E se poi i ragazzi incontrano un gay antipatico, o un rom che ruba loro il telefonino? Certo, abbattere i pregiudizi costituisce sempre un buon metodo educativo, ma qui il cuore del problema è un altro, e cioè insegnare ai ragazzi a non ricorrere alla violenza per sentirsi forti e apprezzati.

Emerge così la tragica incapacità di educare i ragazzi dimostrata dalle famiglie e dalla scuola, che si rimandano a vicenda un problema che nessuno ha voglia di affrontare. Per educare bisogna infatti avere la forza di dire di no, anche se questo verrà accolto male. Bisogna dedicare energie e tempo ai ragazzi, e non considerare i figli e gli alunni come fonte di facili gratificazioni: certo, la mamma che dice sempre di sì, l'insegnante che da la sufficienza a tutti sono in apparenza apprezzati dai ragazzi, ma ottengono solo un gradimento superficiale e momentaneo. Poi sono subito dimenticati, mentre nel ricordo di ognuno di noi rimane viva l'immagine dell'insegnante severo che ci ha aiutati a crescere, che ci ha insegnato a fare degli sforzi per superare i nostri limiti, che ci ha obbligati a dare il meglio di noi.

I ragazzi violenti e incapaci di impegnarsi sono frutto di una società che non investe più nell'educazione: a cominciare dai genitori, che considerano i figli solo una gratificazione e non hanno alcuna voglia di impegnarsi a educarli, magari suscitando le loro prevedibili proteste - e si difendono dicendo che tanto fanno tutti così, che non sono solo loro - sino ad arrivare alla scuola. Gli edifici scolastici sono spesso degradati e malridotti (anche quelli dei centri cittadini) e non incutono rispetto negli studenti, e così gli insegnanti, stanchi e demotivati, che spesso arrivano in ritardo e fanno poco, dicendo che non è più possibile insegnare. Gli adulti hanno gettato la spugna e non si assumono le responsabilità che loro spetterebbero. Ma allora è mutile cercare di salvarsi chiamando l'inciviltà «omofobia» e raccontando come sono buoni e belli i «diversi»: basterebbe insegnare ai ragazzi a rispettare la dignità umana di ciascuno, senza eccezioni. Si tratta insomma non di raccontare più storielle, ma di insegnare: proprio quello che non sappiamo più fare.
  • Lucetta Scaraffia
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mar 25, 2008 11:47 am


      • L'augurio della Pasqua con la fede nel Risorto
        nel messaggio della moglie del diacono permanente Luigi Bencetti,
        morto lunedì 10 marzo
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Pasqua del Signore. Tra poche ore, come ci ricorderà il bellissimo canto dell’«Exultet», nascerà la stella del mattino che non conosce tramonto: Cristo risuscitato dai morti. Questa Pasqua per me è diversa dalle altre. Negli ultimi sei anni ho vissuto una intensa esperienza missionaria all’estrema periferia di Lima (Perù), con mio marito Luigi, diacono della Chiesa di Roma, ed abbiamo celebrato insieme ogni Pasqua. In missione non ci sono sicurezze: i programmi, i «nostri» programmi, vengono spesso completamente cambiati da mille imprevisti (una persona sulla porta mentre stai per uscire, la macchina che si guasta, ecc.) ma sempre, in qualche maniera, anche dietro ai cosiddetti imprevisti c’è il disegno di Dio. Però, per la Santa Pasqua, tutto sembra diverso in quella terra che, in apparenza, nulla ha in comune con l’Italia: la gente che siamo stati chiamati a servire - sempre con tanta gratitudine verso il Signore - attende quasi con impazienza questo Evento. Si potrebbe dire che queste povere persone siano in una trepida attesa della Pasqua perché dà loro il senso di un anno trascorso: si sono preparati per questo e ben comprendono che celebrare la Risurrezione significa celebrarla nella loro vita di ogni giorno, così dura e segnata dalla mancanza di umana speranza. Quante preparazioni con Luigi insieme al nostro parroco, padre Antonio Garciandia Gorriti; quante raccomandazioni ai giovani ministranti, ai lettori, spesso impreparati, ma fieri e felici di svolgere un servizio liturgico, con dignità e compostezza, per lodare il Signore Risorto: tutto veniva predisposto con mezzi poverissimi e impensabili secondo la nostra mentalità: ma tutto con amore! E poi, che dire dei tanti battesimi!

Quest’anno la nostra preparazione alla Santa Pasqua è stata diversa: in un attimo tutti i nostri progetti si sono dissolti e ci siamo trovati insieme in un ospedale qui a Roma. Luigi ricoverato, sofferente, ma sempre desideroso di servire il Signore e affidato alla misericordia del Padre, chiedendo di fare ogni giorno la sua volontà, con il sostegno della preghiera di tanti fratelli e dell’Eucaristia che ogni giorno riceveva dai Cappellani. Abbiamo vissuto il tempo di Quaresima pregando con la liturgia delle ore e posso testimoniare che questo abbandono al Padre, pur nella consapevolezza della gravità della situazione, ci ha dato sempre tanta serenità, credendo dal profondo del cuore che il Signore fa bene tutte le cose.

Nelle ore di trepidazione e di angoscia per la sua salute e per l’evolversi della malattia, ho potuto sperimentare che Dio Padre non abbandona mai i suoi figli ed è fedele. Abbiamo anche scoperto (e questa esperienza ci mancava) che da un letto di ospedale, nell’impotenza fisica della malattia, è possibile dare sempre una parola, un piccolo segno di amicizia, ed anche svolgere il proprio ministero parlando seriamente ad un compagno di stanza prossimo alla fine e adoperandosi affinché ricevesse il sacramento dell’unzione degli infermi. Come diceva Luigi, tutto ci prepara al Grande Evento che può cambiare la vita.

All’inizio ho spiegato che questa Pasqua è stata diversa per me: sì, perché la sera del 10 marzo il mio sposo Luigi è tornato al Padre. Le sue ultime parole al cappellano, dopo la confessione ed il viatico, sono state: «Mi affido totalmente nelle braccia di Maria». Negli ultimi momenti di vita, ancora lucido e cosciente, ha benedetto i nostri sette figli con un volto sereno e pronto per la nascita al Cielo. La veglia e i cinquanta giorni di festa rinnovano ogni anno la nostra fede e ci danno una speranza nuova per andare avanti con fiducia appoggiati al Risorto. Oggi Luigi ha veramente fatto Pasqua! Alleluja!
  • Isabella Bencetti
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 03, 2008 10:41 am


      • Non copriamo di falsi pudori parole e atteggiamenti di Gesù
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Ci sono alcune "sfumature" incastrate dentro la buona Novella di Cristo, che ci obbligherebbero a rifare un cammino di meta-noia, come si dice, cioè di conversione profonda.

Noi, dottori della legge, le abbiamo furbescamente rintanate negli angoli più nascosti della nostra anima. Una di queste sfumature, ad esempio, facilissima da annunciare è: Cristo non ha nemici. Meglio ancora: i nostri nemici, classici e storici, per Gesù sono addirittura suoi amici. E se si dovesse alludere a eventuali nemici di Gesù Cristo, dovremmo tornare alle frasi che lui - un po' alterato - ha pronunciato contro i farisei, perché sepolcri imbiancati e perché gente dalla doppia faccia.

Mettendo giù così, pari pari, l'asserzione, ci sentiamo assaliti dal panico. Dividere il mondo in amici e nemici, analizzare il mondo catalogando i peccatori e i giusti che lo abitano, ci pare un esercizio serio, virtuoso, necessario. Pensare, invece, che un Dio ami i nemici, prediliga i peccatori, si nasconda sotto le spoglie del carcerato, del ladrone, della samaritana, scompiglia e disorienta.

La fede - ci hanno sempre spiegato - deve chiarire le cose e non confonderle. Ma qui si confondono.

Una società fraterna, appoggiata a un Dio che è padre misericordiosissimo, sembra una favola natalizia, una storiella della nonna, una barzelletta da circolo Acli.

Gesù che trasforma il figlio! prodigo in figlio prediletto, il ladrone nel primo personaggio che arriva in Paradiso; il buon samaritano unico e vero prossimo, migliore addirittura del sacerdote e del levita... Non ci siamo! Noi vogliamo che si ritorni a dire pane al pane, carogna alla carogna, ladro all'usuraio, omicida a chi svende gli uomini ai carnefici.

Perché deve essere sempre il male a far notizia e a dettare la sua cultura e le sue leggi? Il proverbio dell'albero che cade e degli alberelli che crescono non deve essere letto solo in chiave rumorosa. C'è rumore e rumore. È pur vero che di solito i piccoli alberelli, le piantine dell'orto, i semi di frumento sono sepolti o quasi dentro il terreno. Ma chi ha una sensibilità degna di questo nome sente che l'energia che scaturisce da queste piantine giovani fa un rumore che gli è congeniale. Oggi si possono cogliere silenzi che mai avremmo pensato di cogliere e isolare rumori fino a ieri incontrollabili e assordanti.

Questa teoria che il bene non fa rumore è stata talmente caricata di falso pudore e di perfezionismo spinto, da farmi persino dubitare circa l'esistenza di questo bene tanto ieratico. Non è che, per caso, il bene tace così tanto perché è meglio non farlo?
  • don Antonio Mazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 10, 2008 3:44 pm


      • «Tribolazione» per la Fede: il mondo non faccia finta di niente
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Doveva essere un omaggio a quanti hanno pagato con la vita la propria testimonianza di fede. Ma la visita di Benedetto XVI nell’antica basilica romana di San Bartolomeo non è stata semplicemente un gesto di memoria bensì un atto di bruciante attualità. E questo perché il 'Memoriale dei martiri del nostro tempo', voluto da Giovanni Paolo II a ricordo di tutti coloro che nel Ventesimo secolo hanno versato il loro sangue per il Signore, si allarga sempre di più diventando tragica cronaca quotidiana di persecuzioni ed uccisioni a danno dei cri­stiani nel mondo.

«Anche questo Ventunesimo secolo si è aperto nel segno del martirio» dice Papa Ratzinger e il pensi­ro corre immediatamente a don Andrea Santoro, ucciso da un fanatico in Turchia, ai cattolici condannati a morte in Indonesia, alla Chiesa in Iraq minacciata di sterminio e colpita al cuore con il recente assassinio dell’arcivescovo caldeo di Mosul, monsignor Rahho, e la barbara esecuzione avvenuta tre giorni fa del sacerdote siro-ortodosso Youssef Adel. E così il «pellegrinaggio alla memoria dei martiri del Ventesimo secolo» compiuto ieri pomeriggio dal Santo Padre con le soste in preghiera presso i sei altari che ricordano i cristiani caduti sotto il comunismo, il nazismo e quelli uccisi nei diversi continenti, si allunga fino ai giorni nostri. Una Via Crucis interminabile, come l’ha definita Benedetto XVI lo scorso Venerdì Santo accennando ai Colossei che «si sono moltiplicati attraverso i se­coli, là dove i nostri fratelli, in varie parti del mondo, vengono ancora oggi duramente perseguitati».

Di fronte a questa lunga scia di san­gue innocente lo stesso Pontefice aveva parlato, nel corso di un’udienza dell’estate 2006, delle «immeritate sofferenze dei cristiani», giungendo a paragonare la situazione attuale con quella della Chiesa dei primi secoli. E con la stessa angoscia ieri ha constatato che «la convivenza fraterna, l’amore, la fede, le scelte in favore dei più piccoli e poveri, che segnano l’esistenza della comunità cristiana, suscitano talvolta un’avversione violenta». A prima vi­sta è qualcosa d’incomprensibile che crea sconcerto e sbigottimento. «Uno scandalo per il mondo che ha fatto sua suprema legge il 'salva te stesso' gridato a Gesù sotto la croce », ha osservato Andrea Riccardi, presidente della Comunità di Sant’Egidio alla quale Giovanni Paolo II aveva voluto affidare la custo­dia del Memoriale dei martiri del nostro tempo, riconoscimento di un carisma e al tempo stesso invito a una più grande responsabilità.

Papa Wojtyla aveva negli occhi la collina delle croci in Lituania ed i tanti campi di sterminio, nazisti e comunisti, disseminati in Europa ed in Siberia. Aveva in mente la lunga teoria dei martiri uccisi ad Auschwitz, come padre Massimiliano Kolbe e suor Edith Stein, e di quelli trucidati nei gulag sovietici e cinesi. Il Papa polacco sapeva bene che sotto il comunismo, nell’Europa dell’Est, le persecuzioni erano l’inevitabile destino della gente di fede. Oggi, all’inizio del terzo millennio, continua l’Olocausto dei credenti. Non più in Europa, ma nel resto del mondo, a cominciare dal Medio Oriente dove i cristiani rischiano di scomparire.

È tornato il tempo dei martiri, il tempo dei «testimoni della fede che umanamente possono apparire come gli sconfitti della storia», nota Benedetto XVI. È tornato il tempo della 'grande tribolazione', come diceva l’Apocalisse. Il mondo non può far finta di niente.
  • Luigi Geninazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 17, 2008 4:25 pm


      • Perché la laicità dello Stato è un vero impegno cristiano
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La questione della laicità è a centro del dibattito politico-giuridico, non solo nel nostro Paese. Oltre a riguardare i rapporti delle religioni con gli Stati, essa interseca una riflessione interna alle Chiese, e in particolare alla Chiesa cattolica, circa il modo di intendere la propria presenza entro la società.

La distinzione tra laicità (indipendenza delle istituzioni pubbliche dalle autorità religiose e dai loro dettami) e laicismo (intesa come ostilità e ostracismo delle pubbliche istituzioni verso la dimensione religiosa), pur utile, non è sufficiente. Oggi, infatti, nelle democrazie occidentali, tutti o quasi, credenti e non credenti, sono in favore della laicità. Ma vi sono molteplici concezioni della laicità e non è sempre chiaro a quale ci si riferisca.

Molte sono le varianti e le sfumature tra due modelli opposti: l'americano e il francese.

Nel primo, la laicità è molto forte (nessun intervento di autorità religiose circa scelte politiche verrebbe mai tollerato), ma anche "amica" delle religioni; queste vengono riconosciute, anche nelle loro strutture organizzate, come componenti della società civile, al pari di qualunque libera organizzazione di cittadini, e hanno anzi in tale novero un posto d'onore: per cui, ad esempio, il riferimento alla fede in Dio non viene considerato lesivo della laicità dello Stato. I modelli europei sono tra loro assai variegati, ma in genere si tratta di una laicità che si intende neutrale, o benevolmente tale, rispetto al mondo religioso.

Il modello "francese" viene considerato quello in cui dalla indifferenza si passa alla diffidenza e si prendono più le distanze, espungendo da tutto ciò che è pubblico e statale la presenza del religioso. La diversità dei processi storici spiega tali oscillazioni. La laicità è frutto dell'evoluzione del principio della tolleranza religiosa, cui si arrivò per por fine agli spaventosi massacri delle guerre di religione tra Stati e all'interno degli Stati, e si sviluppò in due direzioni: la neutralità dello Stato verso le scelte religiose dei cittadini e la sua indipendenza dalla Chiesa. Fu una conquista avversata per lo più da quest'ultima e che avvenne quindi in polemica con essa.

Oggi la laicità è riconosciuta come dimensione integrante della democrazia, come tutela di uno spazio pubblico, in cui tutti possano convenire e con-vivere, da uguali, in forza della loro cittadinanza, obbligati al rispetto del dettato costituzionale, senza che nessuno possa far valere anche per altri le proprie (legittime) opzioni religiose ed etiche.

E qui si insinua un problema assai delicato. Perché, se la maggioranza fosse d'accordo, per esempio nell'imporre come legge dello Stato una norma religiosa oppure nel delegare un potere statale a una autorità ecclesiastica, non avrebbe il diritto di farlo? Perché la democrazia si qualifica per il fatto di garantire a tutti la libertà religiosa, ma anche la libertà dalla religione. Lo spazio pubblico non può essere oggetto di concorrenza per occuparlo. La sua neutralità è incompatibile con l'idea di un accaparramento o spartizione tra gruppi religiosi o ideologici.

Tutt'altra cosa sono la libera espressione di tutte le religioni presenti in uno Stato e il diritto dei cittadini, anche credenti, di portare al dialogo comune le "ragioni umane" delle loro proposte. Le istituzioni religiose, invece, non sono attori politici (del resto, la Chiesa cattolica proibisce ai chierici l'elettorato passivo), e non sono legittimate a una rappresentanza "diretta". Ma questa non è per la Chiesa una condizione della quale dolersi. La laicità è infatti iscritta nel Dna cristiano e con uno spessore teologico che non si riduce soltanto alla pur basilare massima: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

Il messaggio biblico della Creazione, infatti, dicendo: ciò che è terreno e mondano, in quanto tale (a parte la ferita del peccato), è cosa buona, fonda la legittimità della varietà storica dell'umano e dell'autonomia delle leggi che lo governano. L'annuncio biblico al riguardo è già in se stesso desacralizzante, giacché dice che nulla nel mondo è sacro, ma tutto è solo creatura di un Dio trascendente che è anti-idolo per eccellenza: non visibile, non raffigurabile, il cui Nome non si può pronunciare, del quale si può solo udire la voce, che paria tramite i profeti e nel profondo del cuore.

In secondo luogo, si può guardare allo stesso costituirsi della Chiesa come a un modello di laicità giacché, sul calco della figura del suo Signore, laico, in attrito con i poteri religiosi dell'epoca, nato e ucciso fuori dallo spazio sacro della città, la Chiesa si costituisce come una forma di comunità che nulla ha a che spartire con la diade "potere politico-potere sacrale".

È vero che tale coscienza si oscurò, che si riprodussero forme di (fatale) abbraccio con il potere politico e di risacralizzazione dello sguardo con cui la Chiesa guarda a se stessa (in particolare, dopo il Concilio di Trento) e che ci vollero secoli e conflitti per sciogliere tali nodi: ma oggi siamo in grado di riconoscere la laicità come sorella e non nemica della fede cristiana. Essa è separazione, distinzione, non per lacerare, ma per fare cosmo, uscendo dalla confusione del caos: come fece Dio nell'opera della Creazione.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 28, 2008 8:33 am



      • E-book: con Internet il libro digitale diventa biblioteca
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Il fruscio delle pagine mentre scorrono tra le dita, la superficie ruvida sotto i polpastrelli mentre le dita seguono riga dopo riga, l’inconfondibile odore di inchiostro e cellulosa quando si apre una copertina per scoprire cosa custodisce così gelosamente. Parrebbero sensazioni d’altri tempi, suoni ed esperienze di un mondo destinato a rimanere un ricordo archeologico per le future generazioni e invece, strano a dirsi, sono proprio questi gli ultimi bastioni a pararsi davanti all’inarrestabile avanzata dell’elettronica e del digitale in ogni campo.

Perché se ormai siamo disposti ad aggiungere una 'e' – di electronic – davanti a praticamente ogni oggetto del quotidiano vivere, sono ancora pochi quelli che permettono all’industria dei chip e del silicio di trasformare la carta in un oggetto il cui dna sta nel linguaggio binario. E così la serie di zero e uno che da tempo ormai stanno conquistando e dominando ogni manufatto della nostra esistenza per ora non possono che arrendersi davanti ai libri, alle riviste, ai giornali. Da anni, infatti, si parla di 'e-paper' e di 'e-book', di carta elettronica e di libri digitali, con progetti ad hoc che da un lato vogliono scalzare la carta come supporto di lettura, dall’altro si propongono come tecniche e tecnologie sostitutive alla stampa e alla rilegatura.

Esempi se ne sono avuti anche nell’ultimo salone del libro a Parigi (e altri ne verranno dalla prossima Fiera di Torino, che il 12 maggio ha in programma l’incontro «Scrivere e leggere nell’era post¬analogica»), eppure finora il mercato dei libri elettronici e della stessa carta elettronica non è riuscito a decollare: sembra proprio che il libro stampato offra ai suoi 'utenti' un’esperienza insostituibile. Ma forse presto potremo imbatterci in qualcuno che in metropolitana legge il giornale su un foglio sul quale le pagine cambiano stampandosi come nuove a un solo gesto del lettore. Oppure potremo entrare in libreria e comprare un romanzo semplicemente scegliendo il titolo e pescando poi le pagine direttamente da Internet, magari stando su una panchina al parco, vedendole apparire su un supporto spesso appena qualche decimo di millimetro.

La rivoluzione all’orizzonte è stata preannunciata dal successo di un prodotto nato in casa di un vero colosso: Amazon, il noto sito americano di vendita online di libri. La sua nuova «arma» per conquistare i territori finora incontaminati dei lettori di libri, riviste e quotidiani si chiama 'Kindle'. Si tratta di una piccola tavoletta (venti per trenta centimetri, per un paio di centimetri di spessore) che è solo l’ultimo stadio evolutivo di una famiglia di apparecchi sui quali le grandi industrie elettroniche stanno lavorando da anni e basati sulla tecnologia della carta elettronica. Questo tipo di fogli, che si presentano agli occhi come una normale pagina stampata, ma che possono essere cancellati e ristampati, sta trovando sempre nuove applicazioni: dagli orologi digitali alle insegne, da piccoli oggetti con display di vario genere agli ormai famosi lettori di libri elettronici, ovvero gli 'e-reader', cioè delle tavolette delle dimensioni di un foglio A4 e del peso di pochi grammi, in grado di mostrare le pagine degli e-book, i libri in formato elettronico.

Finora questi ritrovati della 'lettura elettronica' non hanno avuto grande fortuna sul mercato, probabilmente perché fino a oggi non offrivano quel «qualcosa in più» in grado di farli preferire ai libri stampati o alle riviste. Eppure il 'Kindle', per 399 dollari (250 euro), offre proprio quel «qualcosa in più», visto che quando è stato lanciato pochi mesi fa il produttore, Amazon, ne è rimasto sguarnito nel giro di cinque ore e mezza costringendo i nuovi utenti ad attendere le nuove forniture fino a metà aprile.

L’idea che ha portato al successo questo piccolo gadget si chiama 'contenuti'. Amazon, infatti, non offre solo un oggetto tecnologico agli utenti del 'Kindle' ma un vero e proprio 'mondo', una nuova esperienza di lettura. La tavoletta grafica, infatti, si connette a Internet usando la rete dei cellulari in ogni luogo, non ha bisogno di computer, e può accedere a un catalogo di libri con decine di migliaia di titoli. Ma non solo: offre le pagine in abbonamento di quotidiani come il New York Times e permette di controllare la posta elettronica o sfogliare migliaia di blog. Il costo dei servizi? Gratuita la connessione, pochi dollari per i libri e le riviste.

in Europa? Un fenomeno simile è ancora lontano anche se esistono progetti analoghi come quello della Simplicissimus book farm che offre libri digitali e appoggia la diffusione dell’olandese Iliad, tavoletta senza fili per la lettura elettronica, o del francese Cybook. Insomma, sembra che il Vecchio Continente preferisca ancora il contatto con la carta e faccia fatica a dimenticarsi della sublime sensazione di sfogliare un libro, magari facendo il gesto di inumidirsi le dita di saliva per aumentare il contatto con la carta. In barba a tutti i rischi di 'avvelenamento da inchiostro'.
  • Matteo Liut
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 05, 2008 10:02 am


      • Promuoviamo l’agape, cultura del dono disinteressato
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La cultura del dono disinteressato e reciproco può essere la via per realizzare il bene comune e rendere più giusta l’economia. La Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, in sessione plenaria in Vaticano, tocca due punti chiave della questione. La dottrina sociale della Chiesa contiene fra i suoi principi basilari proprio la più profonda etica del dono e della solidarietà. Inoltre, alcune iniziative dimostrano che la cultura del dono è molto efficace.

Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere dell’Accademia, ha rilevato che, per un autentico cristiano, la cultura del dono disinteressato è connaturale. «Nei confronti del prossimo, anche se si tratta di un nemico, ognuno di noi ha sempre un debito d’amore. Perché tutti i principi sociali sono condensati in un comandamento: 'Devi amare il tuo prossimo come te stesso'. Li riassume tutti perché l’amore per il prossimo comprende l’amore divino, quando noi amiamo il nostro prossimo per amore di Dio».

Sanchez Sorondo cita Soren Kierkegaard che si rifà a san Paolo: l’amore è ciò che costruisce, compiere un atto d’amore significa edificare. Nell’intervento del cancelliere dell’Accademia, c’è una parola che riassume in sé tutti i significati e tutte le forme del dono e della generosità per il prossimo. La parola – Agape (dal greco 'agàpe': amore) – identifica il convito presso i primi cristiani, più in generale designa la comunità unita da vincoli di amore fraterno e, infine, indica la carità. Dio accorda all’essere umano di partecipare alla natura divina, all’amore che il Creatore prova per le creature.

Da queste premesse Sanchez Sorondo fa scaturire la natura speciale dell’Agape, della carità, cioè del dono disinteressato che non si aspetta nulla in cambio. «E nonostante i suoi difetti, la globalizzazione può favorire, con le comunicazioni e con la conoscenza, nuovi modi di reciproca solidarietà».

Grande attenzione ha manifestato il convegno anche quando sono state illustrate iniziative che rappresentano concreti esempi di solidarietà e sussidiarietà realizzate. A Salvador Bahia (Brasile), la fondazione Avsi, che opera in 39 Paesi con 111 progetti di cooperazione, ha portato a termine un programma di sviluppo nel campo dell’educazione coinvolgendo 500 mila abitan­ti delle favelas. Come ha spiegato il segretario generale Alberto Piatti, il punto di partenza è stato l’aiuto alle famiglie di Novos Alagados, un terzo delle quali trovava riparo dalle intemperie in case costruite su palafitte. «Tanti giovani che vivevano in un contesto di precarietà, emarginazione e violenza sono entrati, grazie allo studio, in un’altra dimensione di vita, scoprendo la loro dignità di persone e il gusto di disegnare il loro futuro».

Una formula che riscuote successo è anche quella dei Banchi alimentari. In Italia, quasi il 5% delle famiglie non riesce ad acquistare il cibo necessario. Si tratta di anziani soli e di famiglie con un solo genitore o con due o più figli. Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, racconta come è nato il Banco alimentare in Italia. La prima idea l’aveva avuta, nel 1967 a Phoenix (Arizona), John Van Hengel, fondatore dell’America’s Second Harvest (il 'secondo raccolto', quello prodotto dalla generosità), procurandosi eccedenze alimentari.

Nel 1989 la formula viene trapiantata in Italia e oggi la rete della Fondazione è imponente: il 'secondo raccolto' tocca le 58 mila tonnellate, ingente il numero di magazzini, celle frigorifere e furgoni. Ora che aumenta la domanda di prodotti agricoli da trasformare in biocombustibili, dice Vittadini, le eccedenze diminuiscono e allora bisognerà cambiare strategia, con acquisti diretti dalle imprese.
  • Luigi Dell’Aglio
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 22, 2008 1:51 pm


      • La ricetta del dottar Tovini per combattere l'influenza della Tv
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Ho scritto con Giovanni Anversa un libretto sulla televisione. È intitolato La tv in mano. Riflessioni in punta di dita . Il tentativo è quasi scontato. Riportare il mezzo mass-mediatico più pernicioso e stupido a un uso intelligente e meno idolatrico. Vi anticipo l'introduzione.
  • «Bisogna decidere se la televisione è una malattia grave, perniciosa, letale, più o meno come l'Aids oppure se è quasi una malattia come l'influenza. Poiché l'Aids ce l'hanno fortunatamente in pochi e l'influenza ce l'hanno in tanti e poiché di Aids si muore ma di influenza si vive, ho deciso di trattare la televisione come una influenza. Non so se questo mio atteggiamento sia troppo superficiale e ingenuo oppure se possa essere un modo diverso per affrontare un tipo di influenza che ogni giorno ci fa aumentare la febbre. Essendo io poi "antico" vi racconto come affrontava l'influenza (ai tempi) il signor Tovini, figlio di un papa bresciano, in via di beatificazione, medico del nostro liceo. Mi sono rotto un polso e per prima cosa mi ha prescritto la purga. Mi sono trovato con la famosa asiatica, non mi ricordo in che anno. Nonostante la diarrea collegata alla particolare tipologia di febbre, mi prescrisse una purga. Ho preso un cazzotto sul naso e con il setto rotto mi ha prescritto una purga (preciso che dopo faceva tutte le altre cose da bravo medico: il gesso, la riabilitazione e i farmaci). Ogni volta chiedevo "perché la purga?", e lui ogni volta mi rispondeva: "Prima bisogna liberare l'intestino perché le cure siano efficaci". Non so se avesse ragione, allora. Ma quello che potrei fare io oggi, a milioni di teledipendenti sarebbe proprio di tornare alle prescrizioni del dottor Tovini. Cioè, una volta la settimana, alle ore diciotto bere una abbondante tisana purgativa. E dopo: spenta la televisione, leggere un libro o cantare un pezzo di gregoriano, piantare l'insalata, percorrere quaranta chilometri in mountain bike con tutta la famiglia, giocare a Monopoli, comporre un puzzle di 5.000 pezzi (in quante ore, in quanti giorni, boh?), fare un'ora di yoga. Il giorno dopo riprendere con tranquillità gli affanni quotidiani tra cui anche qualche mezz'ora di televisione».
Una persona più complicata di me, anziché abbassare il dibattito a livello di purghe, vi riempirebbe la testa di formule sociologiche, pedagogiche e letterarie degne di un problema che pare di giorno in giorno diventare apocalittico per il dilagante rifluire di programmi deleteri e scandalosi. Sono sempre stato contrario a questo modo tragico di affrontare i problemi che potrebbero essere contemporaneamente letti anche in chiave positiva e serena. Ripeto che, secondo me, le persone intelligenti e non solo le ottimiste sono quelle che sanno trasformare in bene anche ciò che avvertiamo negativamente.
  • don Antonio Mazzi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 23, 2008 1:28 pm


      • Il Sessantotto 40 anni dopo: quale eredità per la Chiesa?
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Quarantanni fa "accadeva" il Sessantotto. Più che un anno solare, una cifra simbolica di uno spirito e di movimenti che si estesero nel tempo prima e dopo tale data. Abitualmente, si ricorda innanzitutto il movimento degli studenti che dall'Europa si propagò nel mondo, soprattutto nei Paesi più sviluppati. Un movimento non di categoria: cercò e trovò l'incontro con il movimento operaio e si saldò idealmente ed effettivamente alle lotte per la liberazione dei popoli dalle dittature e per la conquista di diritti da parte di etnie, classi, gruppi oppressi ed emarginati, al rifiuto dell'uso della guerra come mezzo di politica internazionale. Le manifestazioni del movimento studentesco furono altoparlante e specchio dei profondi sommovimenti politici e culturali che attraversavano il mondo. Dal 1964 era in corso la guerra nel Viet-Nam (fino al 1975). Negli Usa il rifiuto dei giovani si diffuse e acuì dal '65 al '69: non solo cartoline di leva bruciate, autoesilio in Canada o Svezia, ma anche attivisti pacifisti che, sull'esempio di monaci buddhisti, si diedero fuoco. Un gesto che sarebbe stato ripetuto nel '69 da Jan Palach e altri giovani, dopo che nel '68 l'invasione sovietica aveva schiacciato con i carri armati la "primavera di Praga", la ricerca di un autonomo comunismo dal volto umano.

L'8 aprile del 1968 veniva assassinato Martin Luther King che alla lotta per i diritti civili della popolazione nera aveva dato straordinario respiro e impulso. Il discorso al suo funerale lo tenne Robert F. Kennedy che, a cinque anni di distanza dal fratello John F., presidente degli Usa, sarebbe stato a sua volta ucciso, il 5 giugno successivo. Negli stessi anni in America latina si accendeva la guerriglia contro i regimi dittatoriali filo-statunitensi. Nel 1966 il prete cattolico e docente universitario Camilo Torres era caduto in una imboscata, in Colombia. Nel 1967 sarebbe stato ucciso in Bolivia il medico rivoluzionario Emesto Rafael Guevara, detto il "Che", argentino, già partecipe, come combattente e poi ministro, della rivoluzione cubana.

Per la Chiesa, erano gli anni effervescenti, un po' anarchici, ma pieni di slancio, del post-Concilio: il popolo di Dio prendeva coscienza del suo essere Chiesa, del suo diritto-dovere di partecipare, secondo i vari carismi, alla vita del corpo ecclesiale. A Medellin, in Colombia, i vescovi esprimevano l'opzione per i poveri, nasceva la Teologia della liberazione. Per i giovani credenti vi era una profonda consonanza tra quanto vivevano nella dimensione culturale e politica e quanto vivevano in quella ecclesiale e di fede.

Il Sessantotto è un nodo in cui si intrecciano e scontrano sogni e speranze, la loro repressione brutale e la rivolta dei giovani che si identificano in quei sogni e speranze, si ribellano all'andazzo del mondo, connettendosi a quelle lotte e smascherando le strutture di ingiustizia presentì anche nei Paesi come il nostro, in cui era giunto il benessere ma nel quale si erano perse la forza morale, la volontà di rinnovamento, la solidarietà che avevano segnato la rinascita dell'Italia dopo la Liberazione.

Al di là delle ingenuità, errori, eccessi e deviazioni, anche gravi, nonché delle contraddizioni dei percorsi esistenziali di alcuni suoi leader, lo spinto più autentico del Sessantotto fu: critica, responsabilità, rifiuto dell'autoritarismo, richiesta di partecipazione e liberazione. «L'obbedienza non è più una virtù», scriveva allora don Milani, per motivare l'obiezione di coscienza al servizio militare. La risposta delle istituzioni fu chiusa sul piano delle idee e violenta: a cominciare, da noi, col duro intervento della polizia a Valle Giulia (1° marzo '68), a Roma, contro gli studenti, che innescò anche la violenza di questi ultimi. Ma, ben oltre la repressione, iniziò la stagione delle stragi: aperta con piazza Fontana, a Milano, nel dicembre del '69, e proseguita con piazza della Loggia (Brescia) e il treno Italicus (1974), la bomba alla stazione di Bologna ( 1980), il rapido 904 (Natale 1984) e altre. Tale strategia della tensione, legata a disegni di eversione fascista e promossa anche da apparati deviati dello Stato, ebbe risposta nel terrorismo "rosso", che uccise in modo mirato bersagli scelti, con logica folle e criminale, tra i migliori esponenti della società civile e politica: magistrati, giornalisti, operai, sindacalisti, professori (tra essi, nell'80, Vittorio Bachelet, già presidente nazionale dell'Azione cattolica), uomini delle istituzioni come Aldo Moro: uno dei rari politici che avevano prestato orecchio alla contestazione giovanile.

Negli anni di piombo, la necessità di far fronte comune contro il terrorismo spense lo spirito critico della dialettica e del confronto. Come una esondazione che non riesce a cambiare il percorso del fiume, ma lascia nuovo humus fecondo, il Sessantotto produsse però cambiamenti irreversibili: dallo Statuto dei lavoratori (1970) al nuovo ruolo delle donne, e resta come invito a divenire responsabili del mondo, individuando quali siano oggi i fronti su cui schierarsi. «Andate controcorrente. Di quanti messaggi, soprattutto attraverso i mass media, voi siete destinatari! Siate vigilanti! Siate critici! » ha detto, a Loreto (2007), Benedetto XVI ai giovani.

Oggi le urgenze si chiamano: pace, lotta alla povertà, alle malattie, accoglienza, volontà di salvarsi insieme e non l'uno contro l'altro; soprattutto, come ha indicato il Papa: «Serve un sì deciso alla tutela del creato e un impegno forte per invertire quelle tendenze che rischiano dì portare a situazioni di degrado irreversibile», con speciale attenzione all'acqua, «un bene preziosissimo che, se non viene condiviso in modo equo e pacifico, diventerà purtroppo motivo di dure tensioni e aspri conflitti».
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 29, 2008 2:51 pm


      • Dimenticare l'impegno per il mondo? È una vera eresia
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Per la prima volta mi ha scritto un testimone di Geova. Una lunga lettera che, non chiamandomi don, contestava il modo di trattare argomenti delicati, avendo letto un mio articolo su Famiglia Cristiana a proposito della droga. La sua tesi era semplice: inutile che parliate dei fenomeni di disagio, di mali, di sofferenze, perché non ci sarà modo di risolvere i problemi del mondo. Scriveva: «Ogni forma di governo, summit, vertice, dibattito, piano, programma, ogni alternativa diversa da quella teocratica è destinata al naufragio». E finiva citando la prima Lettera ai Corinti di san Paolo (3,19): «Perché la sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio»; e un passo del profeta Geremia (10,23): «L'uomo non è stato creato indipendente da Dio».

Una lettera che mi ha offerto qualche spunto di riflessione, nonostante fosse scritta da un testimone di Geova. Personalmente sono molto rigido nei loro confronti. Hanno abbandonato la fede cattolica, facendosi ribattezzare. Chi è diventato testimone di Geova non è in ricerca: ha fatto una scelta e quindi non è possibile alcun contatto. Tuttavia, dicevo, la lettera mi ha fatto riflettere sul modo di relazionarsi con i "problemi del mondo".

Quello che manifesta la lettera è un totale distacco dalle vicende umane, per appellarsi direttamente a quanto dice la Scrittura; spesso in senso letterale. Questa tendenza non è così rara anche in culture diverse da quelle dei testimoni di Geova: abbandonare ogni dimensione umana della storia, per rifugiarsi nella visione trascendente, appellandosi alla “Volontà di Dio” genericamente intesa. La fede cattolica dice altro. Tutto viene da Dio e a lui ritornerà: tra l'origine e la fine di ogni vicenda, il mondo con le sue creature è affidato alle "mani dell'uomo". A lui spetta ricostruire e mantenere pulito quel "giardino" pensato per la felicità del creato.

Non è - come potrebbe sembrare - una discussione di lana caprina e il confronto non è così leggero. Si tratta del peso e del significato delle opere umane in relazione alla salvezza. È come chiedersi se esse, pur avendo senso, siano di fatto inutili. A seconda della risposta si pongono le basi per l'azione dei cristiani nel mondo. Se le opere hanno senso (come dice la dottrina cattolica) esse sono la manifestazione di quel bene dell'umanità portata a compimento da Cristo. Se non sono decisive hanno solo il compito di essere un buon esempio, senza essere determinanti per la salvezza dell'anima.

Io non ho alcun dubbio sul significato del bene compiuto all'umanità: esso è espressione della bontà di Dio ed è il criterio con il quale, come dice la finale del Vangelo di Matteo (25,31-46), saremo giudicati alla fine dei tempi. Dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, visitare i carcerati... è il modo con il quale continuiamo la creazione che Dio ha affidato all'umanità sin dall'inizio. È quanto ci chiede il Signore per dare lode alla bontà del creato. Rivolgersi direttamente a lui, dimenticando la vicenda umana, credo sia una vera e propria "eresia": nemmeno così nobile come si vorrebbe far credere.
  • don Vinicio Albanesi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 06, 2008 7:38 am


      • Una nuova via per far fronte alla fame, valorizzando i corpi intermedi
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Dopo i proclami del Presidente iraniano che hanno rischiato di distogliere gravemente l’attenzione dal contenuto proprio del vertice Fao, si è entrati nel merito dell’agenda. Per capire le dimensioni del fenomeno fame voglio ricordare che nel vertice del 1996 ci si era dati l’obbiettivo di dimezzare da 800 milioni a 400 milioni le persone sofferenti. Dobbiamo constatare che il numero di persone che soffrono la fame ad oggi è aumentato di circa il 9%.

È indubbio che un vertice come quello in corso ha la grande valenza di portare a conoscenza dell’opinione pubblica, e quindi della coscienza di ciascuno di noi, la gravità della situazione, ma ci costringe anche a capire perché la situazione è peggiorata.

Ci aiuta un passaggio del messaggio che il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, ha fatto pervenire ai partecipanti al vertice in corso attraverso il Segretario di Stato Cardinale Tarcisio Bertone: «È urgente superare il paradosso di un consenso multilaterale che continua a essere in crisi a causa della sua subordinazione alle decisioni di pochi». Anche in questa situazione si assiste ad un consenso unanime sulla gravità della situazione e ad un altrettanto pressoché totale disaccordo sui rimedi possibili.

In questo contesto non sarà il consenso che cambierà la situazione, ma la decisione fare qualcosa di diverso rispetto alle analisi e alle ricette fino a qui sentite. Un nuovo, anzi antico punto di partenza, la dignità dell’essere umano. Ricollocare la persone al centro delle azioni e non quei “sistemi cosi perfetti” dove nessuno morirà più di fame.

Sono certamente fondamentali interventi di emergenza che risolvano la contingente crisi, e sono incoraggianti le proposte di Berlusconi (svincolare gli aiuti alle popolazioni nei Paesi in via di Sviluppo dai parametri economici Europei) e gli impegni assunti dal Ministro Frattini sia nell’immediato che nella prossima Presidenza italiana del G8.

Ci aspettiamo che queste disponibilità e il ruolo che l’Italia si sta ritagliando con questi impegni, arrivino anche a rivedere i meccanismi di spesa e di uso delle risorse messe a disposizione. Non possiamo più permetterci di staccare un assegno ad un qualunque Organismo internazionale senza pretenderne trasparenza e qualificazione della spesa o peggio, come prevede il Consenso di Parigi, veicolare l’aiuto bilaterale o multilaterale sul bilancio degli Stati. Questi meccanismi non pongono al centro la persona, ma le burocrazie con tutte le note inefficienze e corruzioni.

Cerchiamo di condizionare il nostro aiuto alla valorizzazione di quei corpi intermedi che nei paesi sono presenti, vicini alla gente e che conoscono i reali problemi. Facciamo leva su queste forme organizzate, aiutiamole e sosteniamole nelle loro attività. Il 17% delle terre irrigue produce il 40% del cibo al mondo: non è sempre necessario costruire un nuova diga di Assuan, bastano nell’immediato sistemi più elementari. Ripartire dalla persona significa ripercorre il lavoro che fecero i Benedettini in Europa bonificando e dissodando terreni “impossibili”. Con questo ideale si potranno usare tutti gli strumenti tecnici oggi a disposizione senza illudersi che dalla tecnica venga il cambiamento.

«Un cammino certamente non facile, ma che consentirebbe di riscoprire il valore della famiglia rurale: essa non si limita a preservare la trasmissione dai genitori ai figli dei sistemi di coltivazione […], ma è soprattutto un modello di vita, di educazione, di cultura e di religiosità», come ha ricordato Benedetto XVI.

L’Italia crei e finanzi 1.000 scuole agricole vicine alla gente e gestite in accordo con le comunità locali - già questo sarebbe un bel cambiamento di rotta - e si adoperi per una riforma adeguata ai tempi degli Organismi internazionali.

Se fossi il Direttore Generale della Fao, da così tanti anni, con questi risultati e con un costo di struttura del 52%, qualche domanda me la farei.
  • Alberto Piatti
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Messaggio da miriam bolfissimo » sab giu 14, 2008 7:33 am


      • Da quella pietra smossa occorre ricominciare
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La Roma di oggi e l’Occidente, non così diversi da quel mondo prima della venuta di Cristo descritto da Paolo nella lettera agli Efesini: un tempo «senza speranza e senza Dio nel mondo ». Uno dei primi passi del discorso rivolto da Benedetto XVI alla diocesi di Roma è una analisi netta di questo inizio di millennio, che non lascia spazio a pigri ottimismi, o buonismi di maniera. Già nella Spe salvi il Papa citava quella frase della lettera agli Efesini paragonando l’era precristiana alla modernità, ma forse ieri è stato ancora più esplicito. Roma, la città santa duemila anni dopo l’avvento di Cristo, e le nostre città occidentali costellate di millenarie cattedrali, non così lonta­ne – quanto a forma mentis dei loro cittadini – dall’evo ancora orfano di Cristo. Quel tempo straordinariamente descritto in un antico epitaffio con queste parole: «Dal nulla nel nulla quanto presto ricadiamo».

Dunque venti secoli dopo, in questa Europa che crebbe sugli scritti dei Padri della Chiesa, in cui la massima espressione dell’arte era ispirata e intrisa di cristianesimo, in cui la carità cristiana diede forma alla vita civile, alla assistenza dei malati, alla famiglia, si assiste quasi a un salto a ritroso della storia, come se, nella concretezza quotidiana, altri dei avessero soppiantato Cristo. È il quadro, ancora, della Spe salvi: della «grande speranza» dimenticata, mentre frotte di modeste speranze vengono inseguite da uomini educati ad accontentarsi di poco. Educati da padri e madri che a loro volta hanno scordato l’origine autentica, il motore primo del mondo che hanno ereditato. Che con fatica e buona volontà tentano di educare i figli, e trasmettere 'valori', e spesso si accorgono stranamente di parlare come al nul­la, nel vuoto. Come è possibile – si chiedono in tanti – eppure siamo stati onesti, abbiamo lavorato, perché di tutto questo così poco sembra riuscire a 'passare' ai nostri figli?

«Una grande e ineludibile sfida educativa», ha detto ieri Benedetto XVI, tornando a indicare di tutte le nostre emergenze la più grave, eppure quella che meno vogliamo vedere. Ma non ha parlato di 'valori', di quella sorta di buon galateo civico tanto spesso astrattamente invocato. Ha saltato le buone e volenterose parole dei maestri laici, per andare alla radice di ciò che una generazione di padri non ha più saldo nelle mani, e dunque non può dare ai figli. Ciò che manca è la speranza, la straordinaria inaudita speranza cristiana: quella che confida nel Dio della vita eterna, quindi in un destino infinito e buono, e non in un nulla spalancato a ingoiarci. Dentro questa speranza, come metabolizzata nelle ossa fino a cinquant’anni fa dal popolo cristiano, si crescevano i figli in un altro modo. Era una speranza più respirata che appresa: in casa, a tavola, nella faccia di madri e padri. Era la percezione che l’uomo non era – come avrebbe detto poi Sartre – dando il marchio al Novecento, «una passione inutile».

La speranza, ha detto il Papa semplicemente, è «Cristo risorto dai morti». Resurrezione senza la quale, come scrisse Paolo, noi cristiani saremmo «i più infelici tra gli uomini». Resurrezione che ha introdotto – è l’espressione del Papa – una «mutazione» nella storia. Tutto è iniziato da quella pietra di sepolcro smossa. Da quello occorre ripartire, a Roma e nelle nostre mille città. Su quella pietra i cristiani cambiarono il mondo. Da quella pietra occorre ricominciare, per rinascere.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » sab giu 21, 2008 10:06 am


      • La morale del «mio» e la violenza del «buon cittadino»
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I lettori non residenti in Italia vorranno scusare se queste riflessioni prendono spunto da recenti fatti accaduti nel nostro Paese, in sé gravissimi, anche se non tali da arrivare alla stampa internazionale. Purtroppo rappresentano una crisi non solo italiana. Si tratta del ripetersi di inquietanti episodi di violenza (prescindendo da quella specifica sulle donne e sui bambini) compiuta a freddo, contro bersagli scelti con la logica della eliminazione del diverso.

A Verona un ragazzo dall'aspetto «di sinistra» è stato ucciso a pugni e calci, dopo un incontro fortuito in cui aveva rifiutato loro una sigaretta, da cinque skinheads, appartenenti a una destra eversiva, aggressiva e nostalgica di criminali dittature del passato. A Napoli, dei trionfanti, "normali" cittadini hanno dato fuoco a un campo nomadi appena sgomberato «per evitare che ritornino», mentre alcuni si gloriavano di dichiarare in televisione che «io avrei dato fuoco a loro, non solo al campo!». La cosa pare stia ora facendo scuola altrove, ma aggressioni "spontanee" a campi nomadi si erano già verificate alle porte di Milano. Nel Lazio, un gruppo di giovanissimi naziskin ha incendiato i capelli di un compagno di scuola.

È una forma di violenza che deve angosciare e indurre a riflessioni profonde. Dietro ad essa c'è l'idea, molto accarezzata nei messaggi culturali diretti e indiretti di questi anni, del "fai da te", del diritto degli individui di sostituirsi alle istituzioni preposte all'ordine pubblico, essendo l'istituzione, soprattutto pubblica e statale, apertamente discreditata e oggetto di dileggio. C'è, ancora più in profondità, il modello dell'individuo che si impone, che vince, che interpreta il suo rapporto con gli altri in termini di un braccio di ferro in cui si misura la reciproca forza: forza fisica, forza di posizione sociale, forza di potere politico, forza economico-finanziaria, forza della immagine e della capacità di appeal, non la forza delle idee, della ragione, della capacità di lavorare con umile e tenace responsabilità, anche nell'ombra, con gli altri e per il bene comune. Virtù da perdenti, virtù grigie, che non "bucano" lo schermo. Una formula, quella del bene comune e della solidarietà, cardine della dottrina sociale della Chiesa, che ormai è come una moneta fuori corso.

Dietro agli atti violenti c'è la violenza di un io che non riconosce di doversi inserire in un complessivo ordine plurale del mondo, ma si pensa titolare di un diritto assoluto su ciò che può dire «mio», un territorio come una cultura, e c'è l'idea che la diversità degli altri, tanto più se è oggettiva fonte di problemi, sia una ragione sufficiente per cancellarli, in qualunque modo: e negli ultimi decenni le relazioni internazionali tra gli Stati hanno offerto tristi e tragici esempi al riguardo, rilegittimando il conflitto armato, violando i diritti umani, favorendo o non combattendo il sottosviluppo di interi continenti.

Emerge in genere una fatale scomparsa della compassione, della capacità di patire insieme: che si attiva talora per i delfini che si suicidano spiaggiandosi o per gli orsetti bianchi, ma non scatta più dinanzi alla sofferenza dell'altro essere umano, come tale.

Al fondo di ciò c'è qualcosa che evidentemente non ha "tenuto". Questi casi estremi sono infatti esemplari di un atteggiamento molto più strisciante e diffuso. Un crollo morale: come se queste persone, che pure mai sfilerebbero un portafoglio di tasca a un altro, non avessero nel loro patrimonio spirituale l'attrezzatura necessaria per reagire correttamente alle nuove situazioni, in particolare al pluralismo culturale, etnico, religioso; come se avessero un metro solo autoreferenziale di coscienza, inadeguato alla dimensione planetaria delle sfide attuali.

Bisogna ripensare a fondo l'impostazione del messaggio ed educazione etici, facendoli maturare dal piano dell'etica individuale a quello di un'etica della mondialità. È un cammino lungo e difficile perché si tratta di ricomprendere se stessi, di identificarsi non più solo nel proprio «io», né nel «noi» del gruppo affine, ma nei tutti dell'umanità, in una spiritualità comunionale cosmica, come formula Raimon Pannikar, che metta al centro il «tu», l'alterità come termine di cura, interesse, amore, invece che di paura e odio. Non si tratta però solo di rispondere a una emergenza contingente.

Il progressivo allargamento dei criteri di giudizio morale dal tornaconto individuale e di gruppo a principi di universalità è, come illustrano i classici studi di L. Kohlberg, il modello della autentica maturazione personale, cognitiva, psicologica, etica. Un grande, positivo ruolo possono svolgere le Chiese, nella misura in cui sapranno additare, non solo ai propri appartenenti, ma esemplarmente a tutti, un modello di sguardo morale che vada ben oltre la valutazione dei soli singoli atti individualmente compiuti, ma inviti a misurarsi, davanti a Dio, con la propria responsabilità nei confronti di ogni essere umano e dell'intera umanità, di ogni vivente, di tutta la terra, rapportando a questo complesso orizzonte di riferimento, alla incidenza che hanno su di esso anche le proprie scelte e azioni più individuali e quotidiane. A cominciare da una vigilanza senza sconti sui pregiudizi, le chiusure, le ingenerosità, gli individualismi e particolarismi che si coltivano o si lasciano passare senza dissociarsi fin nelle più semplici e casuali conversazioni.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 27, 2008 7:46 am


      • L'epoca del "fai come ti pare"
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Mia madre, se mi vedeva la giacca senza un bottone, non mi faceva uscire di casa. Non ti puoi presentare da nessuna parte se ti manca un bottone, mi diceva. Oggi il grande Armani passeggia per Milano e si dice inorridito da come ci vestiamo. Credo che sui bottoni la pensi come mia madre, e non so come dargli torto.

Basta andare al mare una domenica. Vediamo uomini a torso nudo che trascinano i piedi dentro zoccoloni di plastica e zampettano al ristorante senza nemmeno pulirsi dalla sabbia; e donne fasciate alla bell’e meglio da tendaggi umidicci e stinti che chiamiamo esoticamente pareo. Prendiamo a pretesto il sole, il caldo, la vacanza; per giustificare tutti gli zoccoli e i pareo che ci pare, usiamo come armi affilate le parole: comodo, informale, pratico. In realtà è che non abbiamo più voglia di impegnarci, di fare fatica, di mettere energia nemmeno a scegliere un vestito elegante con i sandali in pelle. Abbiamo barattato l’eleganza con una pseudo libertà, che invece ci abbrutisce e ci degrada.

Siamo ineleganti perché abbiamo perso la precisione e l’accuratezza. Esisteva la calligrafia ovvero la bella scrittura, per esempio, perché qualcuno si metteva lì a disegnare parola dopo parola, con precisione da miniaturista. D’altronde, un tempo facevamo mosaici e costruivamo piramidi… Impiegavamo un tempo infinito a cuocere una statua, a pennellare un ritratto, a scrivere un libro: a volte ci mettevamo una vita e non bastava, il libro usciva postumo (ed era una gloria imperitura, ma sarebbe un altro discorso, lasciamo perdere). Così, viviamo alla giornata, nel tripudio di un carpe diem travisato per sempre: qui non afferriamo nessun tempo, lo sprechiamo a essere fintamente liberi, cioè sciatti, guadagnando un tempo che poi ri-sprechiamo in altro, non si sa bene cosa. Almeno coltivassimo il filosofico otium degli antichi, ma neanche quello. Coltiviamo l’ozio del «fare il meno possibile, che tanto è uguale». Qualcuno deve averci detto che non importa più che ci danniamo l’anima a far bene una cosa, basta farla e il risultato è uguale. La presunta uguaglianza dei risultati!

E così, il mondo tira a campare saturando l'aria di approssimazioni e inesattezze.

I giornalisti non fanno più inchieste sul campo, ma telefonano agli esperti elemosinando opinioni al volo. I magistrati non fanno indagini e pedinamenti, ma preferiscono intercettare. I servizi segreti hanno difficoltà a infiltrare i gruppi terroristici, e quindi monitorano le comunicazioni internet e telefoniche. Gli ispettori ministeriali non leggono i libri, non consultano enciclopedie, non controllano i testi, ma si danno - peggio che i nostri giovani - a uno sfrenato copia-incolla. Povero Montale, che tanto si affannava a dedicar poesie! D’altronde, potremmo dire: c’è così tanta differenza tra un ballerino russo e una donna amata?

Ecco, è questo credere che non ci sia poi così tanta differenza che non va. E torniamo ai vestiti: una volta c’era differenza tra soprabito e cappotto, perché si faceva attenzione a che fosse inverno o primavera. Adesso vale il «fa’ come ti pare», mettiti come vuoi, basta che tu ti senta libero. E così, gli studiosi non vanno più in biblioteca, aprono internet e si perdono a navigare nei suoi flutti. E forse nessuno studierà più niente, perché tanto, che differenza fa? Se ti serve qualcosa, peschi in rete e fai la tua bella figura. I politici non fanno più comizi nelle piazze, non studiano i problemi, non vanno in sezione: si limitano ad apparire in tivù, a concionare alla radio. Gettano parole sul mondo, come viene viene. Parole approssimative, rumorose, non pensate, non amate. Parole dove si sente che non alberga più un pizzico di passione ed esattezza.

Sì, perché anche la passione è esatta; anche l’amore esige impegno e precisione. Come scrivere bene, come indossare un bel vestito, cuocere il tempo giusto un dolce, come amare la persona a cui abbiamo promesso amore. Invece oggi, come ci infiliamo al volo gli zoccoli di plastica per scendere in strada, così una sera diciamo al nostro coniuge che basta, non lo amiamo più, e non sappiamo proprio cosa dirgli se non lo amiamo più: ce ne andiamo, lasciando dietro di noi i cocci sparsi di una casa, dei figli, dei parenti vecchi e malati. Cosa importa? Gira il vento e noi, anime libere e irresponsabili, seguiamo il vento. E il vento ci porterà via, e non resterà nulla di noi. Sciatterie del sentimento.

Dovremmo smetterla. Dovremmo scrivere un manifesto dell’Antisciatto. Senza tante pretese, con un’unica regola: l’umiltà di fare bene quel poco o tanto che sappiamo fare, con il pensiero però che quel nostro umile fare, almeno un po’, concorrerà a migliorare il mondo.
  • Paola Mastrocola
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio lug 03, 2008 11:01 am


      • L’insegnamento dell’apostolo: una Fede oltre le frontiere
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Sul quaderno di note aveva scritto: «Abbozzo di sceneggiatura per un film su san Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)» e, sotto, la data «Roma, 22 28 maggio 1968». Quarant’anni fa, dunque, Pier Paolo Pasolini aveva pensato a un soggetto cinematografico dedicato all’Apostolo che, però, non avrebbe mai visto la sua esecuzione. In quegli appunti c’era un’intuizione che si potrebbe riproporre pari pari anche per l’anno paolino che ieri Benedetto XVI ha aperto solennemente nella basilica ro­mana che custodisce la tomba di questa figura capitale del cristianesimo.

Pasolini, infatti, pensava di trasporre la vi­cenda di Paolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche metropoli della cultura e del potere (Atene, Roma, Corinto, Gerusalemme…) con New York, Londra, Parigi, Berlino e la Roma attuale.

L’Apostolo, infatti, è l’uomo che ha rin­corso la modernità senza lasciarsi da essa omologare; ha operato l’inculturazio­ne di un messaggio dalle forti connotazioni semitiche nelle coordinate linguistiche, ideali e sociali dell’Impero romano e della civiltà ellenistica; non ha temuto di inoltrarsi sui sentieri d’altura della teologia senza cadere nelle panie dell’ideologia asfittica; è stato un edificatore di cattedrali spirituali ma anche di comunità locali, così intimamente insediate nel tessuto urbano da correre il rischio talora di impolverarsi mani, piedi e coscienza (si leggano le Lettere ai Co­rinzi!). Equivocava, perciò, il nostro Gramsci quando liquidava San Paolo come «il Lenin del Cristianesimo», così come sbandava Nietzsche quando lo op­poneva agli 'evangelisti', cioè ai primi annunziatori della 'buona novella' di Cristo, bollandolo come 'disangelista', cioè araldo di una 'cattiva novella', con­fermando laicamente uno stereotipo, dif­fuso anche tra molti credenti, secondo il quale l’Apostolo è un gelido teorico, «la causa dei principali difetti della teologia cristiana», come lo accusava Renan.

Certo, Paolo è convinto che fede e pen­siero si richiamino reciprocamente e quindi esige nel suo lettore rigore religioso e intellettuale. Ne era già consapevole la stessa Seconda Lettera di San Pietro quando osservava che «nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo vi so­no alcune cose difficili da comprendere gli ignoranti e gli incerti le travisano a loro rovina» (3,16). È, dunque, necessaria una lettura sorvegliata e accurata del pa­trimonio letterario e teologico paolino che comprende ben 2003 versetti sui 5621 che compongono l’intero Nuovo Testamento. Egli induce al ritorno verso una fede che accoglie e approfondisce le ragioni che la sostengono. Questo anno paolino, anche se ancorato a una data di nascita più simbolica che reale, potrebbe allora essere il tempo per riproporre una meditazione personale e comunita­ria dell’epistolario paolino.

Sarà, certo, un vigoroso esercizio men­tale ma anche l’occasione per ritrovare una spiritualità pura, spoglia da fronzoli secondari, da ridondanze devozionali, da derive evanescenti, una fede che abbia il suo cuore profondo e vitale in quel Gesù Cristo che è nominato almeno quattrocento volte negli scritti dell’Apostolo. Il motto emblematico paolino, è, infatti, tutto in quella frase incastonata nella Lettera indirizzata agli amati cristiani della città macedone di Filippi: «Per me il vivere è Cristo» (1,21). Ma la sua riflessione riesce a raggiungere anche le vette dei temi religiosi ultimi, come la grazia, la fede, la giustificazione, la legge, la libertà, la salvezza, l’agape, senza però evitare gli abissi oscuri del peccato, della carne, del male e della nostra fragilità creaturale. Per questo il poeta Mario Luzi definiva 'smisurata' la figura di Paolo, capace cioè di varcare le frontiere per discendere nei segreti tenebrosi dell’umanità e ascendere verso il cielo del divino e della redenzione piena. E il suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, sta lì, davanti a noi ancor oggi a sfidarci per imboccare la via di un cristianesimo radicale e autentico.
  • Gianfranco Ravasi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 11, 2008 3:05 pm


      • Le nefandezze di una nota clinica e l'idolo Mammona
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La nettezza con la quale Gesù oppone l'amore di Dio alla brama di ricchezza spicca e forse sorprende nella mitezza dell'annuncio, soprattutto nei confronti dei peccatori, preservandoci così dal trasformare l'Evangelo in una mera decorazione esterna. Nel giudizio di condanna e salvezza emesso sul mondo dalla Croce, il "principe di questo mondo" è stato vinto, ma può ancora contrastare il regno di Dio che si è inaugurato, dominando in una "realtà" solo apparente, mortifera e destinata alla nullificazione.

L'elemento concreto in cui viene individuato il contrassegno di tale contro-realtà è il «Mammona». L'Evangelo ha a questo riguardo una delle espressioni più tranciarti e assolute: «Nessuno può servire due padroni. Non potete servire Dio e Mammona» (Matteo 6,24 e Luca 16,13). Anzi, in termini filosofici, si delinea qui una vera contraddizione. Non viene enunciato infatti un divieto, ma una impossibilità: chi ha ascoltato e accolto l'annuncio del regno di Dio, si muove nella logica di esso e del suo amore e questo implica il non servire Mammona; chi serve Mammona non sta servendo, non può servire Dio. Ma che cos'è Mammona? Spesso si sottolinea che si tratta della ricchezza «ingiusta», oppure che si tratta di qualunque bene terreno divenuto fine e non mezzo, un idolo cui ci si affida invece di affidarsi a Dio. Interpreta-zioni molto opportune, se estendono il senso originario; infelici se, alla fine, lo oscurano. Giacché il senso originario è proprio quello del patrimonio, del danaro, del loro accumulo. Di questo, innanzitutto, Gesù afferma una contrapposizione radicale col Regno di Dio: la tensione fondamentale di un essere umano non può andare in due direzioni che sono non solo divergenti, bensì sono, luna, la negazione dell'altra. Perché? La parabola dell'amministratore infedele (Luca 16, 1-13), al termine della quale Gesù enuncia l'alternativa, è molto illuminante al riguardo.

Il Regno di Dio non comporta il ricercare la miseria! Tutt'altro: semmai, il ricercare la condivisione (lo "spezzare il pane") come mezzo di gioiosa convivialità, di prosperità materiale e spirituale per tutti (Atti 2,42-47).

Mammona è altra cosa. È ricchezza "ingiusta". Che cosa la rende tale? Non solo l'avere come fonte il furto, la frode, la truffa. No. Anche il non dare una mercede "giusta", vale a dire sufficiente per una vita dignitosa con la propria famiglia; anche la mancata tutela delle norme di sicurezza sul lavoro; anche l'imposizione di ritmi, orari, condizioni ambientali insalubri e gravose; anche il non pagare le tasse dovute; anche l'usare il lavoro e la vita di altri come semplici mezzi per il profitto, senza tutele, precari, esposti al rischio costante di disoccupazione. E, quanto alla sua destinazione: il sentirsi padroni dei beni e non loro amministratori per il bene di tutti, di tutta l'umanità, rispondendo ai suoi bisogni.

Ma vi è una più profonda radice di perversione. Mammona dice «cose»: cose, invece di relazioni. Il regno di Dio è farsi amici, vivere la profonda relazionalità che ci costituisce e usane le cose come mezzi per questa. Farsi amici i poveri, gli emarginati usando anche le cose, condonando il debito (ai Paesi del Sud del mondo), spesso inoltre ingiusto. Ma, se si amano le cose, morte, invece dei viventi e della relazione con loro, si è fuori dal regnare del Dio vivente, che è amore e relazione.

Mammona dice, tra le cose, una in particolare: il danaro. Il danaro è nella nostra esperienza quanto vi è di più simile e analogo al feticcio, all'idolo. È una cosa che sta al posto di altro. Sta al posto della farina o della lana, ma sta anche al posto di chi è morto per produrlo (3 morti al giorno sul lavoro in Italia), rendendolo invisibile. Ed è una cosa che può stare al posto di ogni altra, dandoci l'illusione dell'onnipotenza. Tutto ciò che diviene mercé, sul mercato, diventa danaro: cosa inerte, ma che può contagiare e far morire nello spirito. Certo che è molto più pratico dello scambio in natura o in metalli preziosi! Chi vi rinuncerebbe? Ma si deve vigilare: invece di usarlo per lo scambio, rischiarne di cercarlo per sé e di accumularlo.

Il principe di questo mondo, il motore di guerre, fame, sete, sottosviluppo, inquinamento del pianeta è, oggi più che mai, il danaro. Un recente, sconvolgente, episodio di cronaca italiana ci paria di cliniche in cui si sono fatti interventi chirurgici inutili, dannosi e anche mortali, per lucrare. Ma come prevenire il darsi di simili nefandezze, se non invertendo la rotta e sottraendo, invece che consegnando, alla logica del prezzo e della compravendita settori importanti e vitali della nostra vita personale e associata? Il rapporto con la «cosa» danaro è in asse diretto col giudizio finale, con l'avvento del regnare di Dio.

Per questo, il monaco Pelagio scrive nel IV sec. il De divitiis, ben tradotto in italiano (C. Scaglioni) con Può un cristiano essere ricco? Per questo la povertà è il primo dei consigli evangelici. Per questo, a Nomadelfia, la comunità cristiana fondata da don Zeno Saltini, non circola danaro ne vi è proprietà privata.

Esempi che additano una direzione per tutti.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio lug 17, 2008 3:35 pm


      • Se non della vita e della morte di cos’altro può parlare la Chiesa?
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A volte ci si ritrova come viandanti intorno a un bivacco. Perché la vita è un viaggio pieno di imprevisti. E ogni tanto ci si ritrova, venendo da strade diverse, a conversare. Sono i momenti come questo, quando tutti colpiti da una vicenda come quella di Eluana si sente la necessità di parlarne.

È sempre stato così, intorno a bivacchi antichi, e anche nelle soste della più frenetica vita moderna. Che ha sì ritmi diversi, ma è pur sempre un viaggio. Durante il quale accade che gli uomini si trovino davanti a speciali eventi, che richiamano i grandi temi della vita e della morte. Allora in quei bivacchi, in quei ritrovi si parla anche di questo.

Si cessa per un po’ di parlare di soldi, di amori, si smette di chiacchierare e si discorre del senso della vita, e della morte. Ognuno dei viandanti lo fa a modo suo, venendo dalla sua strada. Portando i pensieri della vita che lo ha condotto fin lì.

E vista la difficoltà, la serietà, la grandiosità del tema, sono ben accolti i suggerimenti, le proposte, le domande di tutti. Si parla piano, in genere davanti a certe cose immense. In genere chi alza la voce lo fa per nascondere un disagio, o una insicurezza travestita da intolleranza.

Anche nel bivacco che si è costituito in questa circostanza della vita pubblica italiana, sotto le vaste stelle di un problema delicato che riguarda il confine tra la vita e la morte, ci sono state molte voci, quasi tutte discrete, attente. In molti hanno preso parola. Naturalmente i protagonisti principali.

Che attorno al silenzio di Eluana hanno provato sinceramente a interpretare cosa sia meglio fare. Con discrezione e passione. Ma qua e là si è sentito, nel grande ritrovo di viandanti intorno a questo tema straziante e centrale, anche lo strano vociare di chi pretende che la Chiesa taccia, che non parli, che solo lei – mentre parlano giornalisti, scrittori, cantanti – non si azzardi a dire la sua. E proprio perché, dicono qua e là queste voci, quando si parla di vita e di morte, dei fatti più 'propri' della vita di un uomo e di ciascuno, la Chiesa secondo costoro dovrebbe tacere. E ascoltano o riportano infastiditi, ad esempio, le parole misurate e pensose del cardinale Bagnasco. È strana questa volontà di esclusione dal bivacco e dalla conversazione. Uno strano, serpeggiante segno di nervosismo.

Forse perché la Chiesa – che non è solo la voce di un ecclesiastico (per quanto significativo) ma anche la vita, la fede, la speranza di milioni di persone – ha proprio da dire qualcosa su vita e morte quando molti altri si fermano in vaniloqui o retoriche cascanti.

Vorrebbero che lei tacesse, che non 'si intromettesse' là dove molti si intromettono, proprio perché la Chiesa, che non è un sacro palazzo, ma la vita di una trafila interminabile di gente, la fede e la carità di una folla di ignoti e di illustri e soprattutto di gente normale, insomma, forse proprio perché la vita della Chiesa ha scoperto, guardando Gesù, delle cose che illuminano meglio di altro, più ragionevolmente di altro, il mistero della morte, e il mistero della esistenza.

E chi la vorrebbe allontanare dal bivacco degli uomini, dai tavoli dove si conversa della vita e della morte, lo fa forse per nascondere una voce scomoda, una voce che non si accontenta del sentimentalismo né del razionalismo. Una voce così umana, che richiama gli uomini a essere se stessi. A non trasformarsi nella propria maschera.

Davvero se mancasse quella voce introno al bivacco, al ritrovo sotto le stelle di fronte alle grandi questioni dell’esistenza, saremmo più liberi, più attenti e più tesi a camminare secondo la nostra eretta statura? Davvero, senza la voce che viene da quel vento di secoli e di fede e carità, di arte e di pensiero, saremmo più umili e attenti in questo difficile viaggio?
  • Davide Rondoni
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio lug 24, 2008 4:28 pm


      • Le famiglie con disabili, storia di un dramma dimenticato
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Al termine dei corsi professionali mi sono incontrato con le famiglie di ragazzi con disabilità mentale. Ho osservato le facce di questi genitori quasi tutti cinquantenni: i volti chiedevano un futuro per questi loro figli. Difficile, ma doveroso spiegare loro che, pur avendo frequentato dei corsi professionali, non per tutti era possibile un inserimento lavorativo.

È vero che la legge stabilisce che le aziende con oltre 15 dipendenti debbano essere in regola con l'assunzione di una persona disabile. La legge però non indica il tipo di disabilità. Non è dunque difficile aggirarla, in un Paese, come il nostro, dove i disabili sono milioni. Inoltre un posto di lavoro per un ragazzo disabile mentale è ancora più difficile. Occorre una trattativa lunga per convincere le amministrazioni e i datori di lavoro a mettere a disposizione un posto.

Eppure la storia di queste famiglie è eroica. Si tratta di ragazzi che sin da piccoli hanno mostrato problemi: per una malattia congenita, per un morbo, per qualcosa che nessuno saprà mai spiegare. I loro genitori non li hanno abbandonati. Anzi: hanno frequentato ospedali, cliniche, medici, specialisti nella speranza della guarigione. Solo dopo lunghi anni si sono arresi a gestire la disabilità. Li hanno accuditi cercando per loro un "mondo" normale: tra gli amici, nel quartiere, in parrocchia. Hanno preteso che fossero inseriti a scuola. Hanno sperato ancora, pensando a una preparazione specifica al lavoro. Ma ora? Che futuro per queste creature?

Non sempre cercano lo "stipendio": cercano futuro. Tenerli a casa, senza più amici, con fratelli e sorelle che seguono la loro strada, è una sofferenza. E con il trascorrere degli anni che fa invecchiare i genitori, il futuro diventa un incubo. Alla nascita la medicina è molto presente, affinché giustamente queste creature vivano oltre il loro handicap. L'attenzione dei primi anni permette anche molta riabilitazione. A 12-15 anni inizia l'abbandono. Rimane solo la scuola ad accoglierli, ma spesso senza fornire loro una grande integrazione. Usciti dalla scuola, resta il vuoto. Le occasioni si diradano proporzionalmente alla gravita della disabilità e alla forza della famiglia: quando hanno molti amici e fratelli, almeno non perdono l'autonomia che hanno conquistato. Nei casi peggiori rimane una solitudine infinita che spegne inesorabilmente ogni possibilità di vita dignitosa.

Il genitore è cosciente di invecchiare e sa di non poter rimanere solo con questi figli: quando se ne sarà andato chi si prenderà cura di loro? Almeno il lavoro offre la possibilità di autonomia economica. Soli e senza genitori, con una pensione irrisoria, questi ragazzi rischiano realisticamente di finire in ricoveri disumani. Occorre rimettere attenzione su questa situazione, che è un dramma per centinaia di migliaia di famiglie e che solo grazie all'amore dei genitori non è divenuta esplosiva.
  • don Vinicio Albanesi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven ago 01, 2008 2:06 pm

      • Il caso della moschea di viale Jenner e la 'lezione australiana"
Mentre in Italia infuriavano le polemiche sul Centro islamico di viale Jenner a Milano, dall'altra parte del mondo la Federazione australiana dei Consigli islamici offriva ospitalità a 350 partecipanti alla Gmg. Cose dell'altro mondo, verrebbe da dire, di un mondo lontano e poco conosciuto.

E così centinaia di giovani cattolici, dopo le lunghe giornate tipiche di ogni Gmg, alla sera si sono ritrovati all'interno di famiglie musulmane, condividendo con esse il tetto, il cibo, le emozioni di giornate così particolari. Sia per loro che per i loro ospiti. Un bel gesto, certamente, che dice bene come in un contesto di pluralismo e di reciproco riconoscimento tra le comunità culturali e di fede, sia possibile costruire quel dialogo della convivialità tanto spesso citato nei documenti ma poi così raramente vissuto in esperienze concrete.

Come noto, i cattolici in Australia sono poco più del 25%, una minoranza in un contesto prevalentemente protestante. Ma il mosaico religioso dell'ultimo continente comprende molte altre comunità: quella islamica, che conta circa 350.000 fedeli, ma anche ortodossi, ebrei e - soprattutto - centinaia di migliaia di appartenenti alle religioni indigene preesistenti alla colonizzazione inglese del '700.

In questo contesto esplicitamente multiculturale è stato facile immaginare un gesto di accoglienza che per qualche giorno ha avvicinato cattolici e musulmani. Non è un fatto casuale e improvvisato: è piuttosto il frutto di una cultura e di una strategia politica perseguita dal governo che, dopo strappi dolorosi e laceranti con il passato coloniale, ha consentito alla "nuova Australia" di riconoscere tutte le sue componenti culturali e religiose, anche quelle minoritarie e sconfitte sul piano militare.

Negli stessi giorni a Milano veniva precluso al culto del venerdì un centro islamico regolarmente acquisito dalla comunità musulmana che veniva "mandata" a pregare "a tempo" - tre ore al venerdì - in sedi giudicate più idonee: una volta il velodromo Vigorelli, quindi il Palasharp e poi si vedrà. Tutto questo è sembrato giusto e urgente al ministro dell'Interno ed anche agli amministratori locali - tutti, nessuna apprezzabile differenza tra destra e sinistra - che hanno plaudito alla determinazione con cui si è posto fine al «disdoro» dei musulmani che pregavano sui marciapiedi di viale Jenner.

L'unica voce - evidentemente stonata in un coro quasi unanime - levatasi a denunciare la gravita di questo provvedimento e la sua esecuzione così immediata è stata quella dell'arcidiocesi di Milano che con parole certamente forti ha paventato una soluzione «fascista» a un problema che rimanda a supremi valori costituzionali come la libertà di tutte le confessioni religiose nell'esercizio del proprio culto. Preoccupa che questa voce sia rimasta isolata; consola che da Sydney sia giunto un messaggio diverso.
  • Paolo Naso
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio ago 28, 2008 3:37 pm


      • Perché nel nostro mondo globale resiste la paura del "diverso"?
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Tra i molti ragazzi accolti ci sono alcuni provenienti dall'Africa. Come tutti i minori non accompagnati, si consegnano alle Questure per poi, tramite il Tribunale dei minorenni, essere affidati alle comunità. Ne abbiamo accolti diversi, provenienti da quei Paesi poveri o immersi nelle guerre civili di cui parlano spesso i giornali: dal Darfur, dalla Repubblica del Congo, dal Senegal, dalla Guinea. Sono ragazzi come tutti: volenterosi e molto coscienti della loro situazione senza ritorno. Desiderosi quindi di guardare al futuro, ben sapendo che in Italia nulla è regalato e scontato. Preferiscono lavorare, invece che studiare. Essendo giovani e intelligenti non sarebbe difficile collocarli, anche perché il contratto di apprendistato che non pesa troppo sulle piccole aziende, permette di far risparmiare molto all'artigiano o al piccolo industriale.

Mentre per altri ragazzi "bianchi" provenienti dall'Est europeo le difficoltà sono minori e quindi la collocazione più facile, per i ragazzi "neri" gli ostacoli sono maggiori. Intanto non possono far lavori a diretto contatto con il pubblico. A precisa domanda sul perché di queste difficoltà, anche i datori di lavoro più volenterosi hanno risposto: «La gente non desidera». Non resta loro che la collocazione in fabbriche manifatturiere o di lavori verso terzi (impianti sul territorio).

Ho pensato molto a quale radice potesse far riferimento questa opposizione. Il colore della pelle, la lingua diversa, la non conoscenza delle culture. Nessuna spiegazione è convincente, perché anche altri ragazzi di altre razze hanno caratteristiche simili, Forse la ragione più plausibile è la loro "diversità", esplicitata dal colore della pelle. Una specie di paura ancestrale: nascosta, misteriosa, inspiegabile. Eppure sono ragazzi come tutti; eppure, pur essendo stranieri, non sono diversi dai nostri figli... Le loro differenze si esternano nei loro gusti, colori, sapori; tutte caratteristiche che non spiegano il vero e proprio rifiuto.

Mi è tornato in mente il rifiuto, oggi un po' meno accentuato, ma ancora vivo verso i diversi delle nostre terre: dagli albini, a chi ha una gibbosità, a chi è affetto da nanismo, a chi ha avuto la polio, a chi si sposta in carrozzina, a chi non vede. Molti decenni fa si parlò di "stigma", il marchio che contraddistingueva chi era diverso, creando perplessità, paure, estraneità. Occorre molta attenzione e cura della dignità delle persone per non incorrere in giudizi e pregiudizi. Forse il modo concreto per sconfiggere la paura è quello di frequentare le persone appunto "diverse": si sperimenta veramente che ciò che unisce il genere umano è molto più ampio e profondo di quanto lo divide. Una necessità ancora più grande, in un mondo ormai globalizzato, per cui nella nostra Italia le razze, le nazioni, gli idiomi che convivono sono diventati numerosi.
  • don Vinicio Albanesi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar set 09, 2008 10:18 am


      • Imparare a perdonare, "caso serio" del cristianesimo
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«Rimetti a noi i nostri debiti come noi rimettiamo ai nostri debitori». È una di quelle frasi così potenti che, a volte, sembra quasi meglio non pensarci troppo. È un po' come «ama il prossimo tuo come te stesso». Un mio amico commenta che molti cristiani la mettono in pratica alla lettera: dal momento che non amano per nulla se stessi, amano altrettanto (cioè nulla) anche il loro prossimo. «Perdonaci nella misura in cui noi perdoniamo agli altri» è una richiesta che, a ben pensarci, è abbastanza suicida, a meno di non avere un'opinione di sé estremamente alta.

Prendo come pietra d'inciampo alcune riflessioni suscitate dalla piacevole lettura del recente saggio di Ottavia Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento. Il libro offre una documentata rassegna su alcune prassi diffuse che a quell'epoca mescolavano morale, diritto e religione in un modo per noi forse insopportabile, ma la cui memoria può essere preziosa. Cinque e Seicento sono infatti due secoli molto particolari e non così lontani: è il tempo della Riforma luterana e della Riforma tridentina, quando si sono cristallizzate le forme di Chiesa (la vita parrocchiale, ad esempio) che hanno condizionato l'esperienza cristiana, e di conseguenza la vita sociale italiana, almeno fino al XX secolo.

In certi casi, ancora fino a oggi. Come impatto sulla storia cristiana, sono secoli paragonabili al III e IV, quando la fede della Chiesa affrontò alcuni temi così fondamentali da condizionarne la dottrina e la struttura. All'inizio del primo millennio, questi temi si presentavano sotto forma di questioni centrate sulla figura del Nazareno: «Chi è Gesù Cristo? Cosa ha fatto? In che rapporto sta con Dio? Che significa proclamarlo Signore e Salvatore?».

I Padri della Chiesa individuarono nel Credo e nel Padre Nostro le pietre miliari da cui iniziare il cammino di risposta che prende il nome di "fede cristiana". Non a caso, erano proprio il Credo e il Padre Nostro i due testi commentati immediatamente prima o dopo il battesimo. Le domande sull'esperienza cristiana, tuttavia, non smisero di compiere un loro percorso e più di mille anni dopo - nel Cinque e Seicento - avevano compiuto un giro completo, riproponendosi completamente capovolte. Al tempo di Leone X, di Lutero, di Calvino, del Concilio di Trento, di Ignazio di Loyola, di Filippo Neri e del cardinal Borromeo, le domande che scuotevano l'esperienza credente erano diventate: «Chi è il vero cristiano? Come deve essere e cosa deve fare la Chiesa? In che rapporto sta con Dio? Che cosa significa dire che annuncia la salvezza?».

Ora, se il centro della questione è Gesù Cristo (come nelle domande del III-IV secolo), la frase «rimetti a noi i nostri debiti come noi rimettiamo ai nostri debitori» è estremamente consolante. In quest'ottica, infatti, il Padre Nostro è "la preghiera del Signore": la si recita sapendo di avere al proprio fianco (durante la Messa addirittura in presenza di) colui che morì pregando: «Padre perdona loro perché non sanno quel che fanno» (Lc 23,34).

Se la misura del perdono invocato a Dio è quella praticata dal Figlio di Dio fatto uomo che prega con noi, siamo a posto. Ma se il Padre Nostro è soprattutto "la preghiera dei cristiani", se cioè il problema è chi sono io e quali sono le condizioni con cui posso meritare la salvezza, la stessa frase diventa un'arma a doppio taglio. Non a caso, nel XVI secolo, la glossa più frequente a quel versetto è che «chi non perdona al prossimo non sarà poi perdonato da Dio, e per sua stessa richiesta!».

Con la sua proverbiale lucidità, Lutero spiegava che chi nella vita non perdona agli altri, recitando il Padre Nostro «maledirà se stesso e la preghiera capovolta gli attirerà l'ira anziché la grazia di Dio». Su questo, i teologi romani concordavano sorprendentemente: «Tutti quelli che non vogliono perdonare al prossimo fuggano questa orazione!». Ai tempi di Savonarola, si era arrivati a recitare solo la prima metà della preghiera per evitare di inguaiarsi da soli. Altri proponevano di recitarla solo mentalmente e in gruppo, sperando che qualche confratello degno di pronunciarla trascinasse con sé anche gli altri.

Un vescovo di Capodistria, Pier Paolo Vergerio, trovò una soluzione quasi commovente: come si può pensare - spiegò il prelato - che Dio prenda noi creature come misura della Sua misericordia? La preghiera è un atto di fede, di fiducia nella infinita grazia di Dio, ancora più evidente di fronte alla limitatezza nostra. Non si prega per perdere la fede nell'amore di Dio. Al tempo stesso, però, non si dimentichi che essere discepoli di Cristo è una cosa seria e che il perdono è una delle questioni - che non sono così tante come sembra - su cui si gioca davvero la possibilità di godere di ciò che è stato donato.

Nel dubbio, meglio imparare a perdonare.
  • Marco Ronconi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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