LE FAVOLE di Guido Gozzano

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Beldanubioblu
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LE FAVOLE di Guido Gozzano

Messaggio da Beldanubioblu » lun mag 22, 2006 1:38 pm

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La camicia della trisavola
di Guido Gozzano

Quando (il tempo non ricordo!)

cani, gatti, topi a schiera

ben si misero d'accordo

c'era, allora, c'era... c'era...



... un orfano detto Prataiolo, tardo e trasognato, tenuto da tutti per un mentecatto. Prataiolo mendicava di porta in porta ed era accolto benevolmente dalle massaie e dalle fantesche, perché tagliava il legno, attingeva al pozzo; e quelle lo compensavano con una ciotola di minestra. Ma quando Prataiolo compì i diciott'anni, il vicinato cominciò ad accoglierlo meno bene ed a rimproverargli il suo ozioso vagabondare.

Tanto che egli decise di lasciare il paese e di mettersi pel mondo alla ventura.

Andò a salutare la sua sorella di latte, Ciclamina, e questa gli disse:

- Voglio darti una piccola cosa, per mio ricordo. Non sono ricca e non posso fare gran che. Aggiungerò al tuo fardello una logora camicia della mia trisavola, che era negromante.

Prataiolo non poté nascondere un sorriso di delusione.

- Non sdegnare il mio dono, o Prataiolo. Ti sarà più utile che tu non pensi. Ti basterà distendere la camicia per terra e comandare ciò che vorrai: e ciò che vorrai sarà fatto.

Prataiolo prese il dono, abbracciò la sorella, e partì. Verso sera sentiva appetito e trovandosi senza provviste e senza denaro, cominciava ad inquietarsi, perché aveva ben poca fiducia nella tela miracolosa.

Volle provare, tuttavia; la distese in terra e mormorò:

- Camicia della trisavola, vorrei un pollo arrosto!

Ed ecco disegnarsi a poco a poco l'ombra di un pollo, leggiera dapprima e trasparente, poi più densa e concreta, solida e dorata come un pollo naturale. E un profumo delizioso si diffondeva intorno.

Prataiolo non osava toccarlo, temendo un malefizio. Poi si chinò, lo palpò, ne strappò un'ala, la portò alla bocca.

Era un pollo autentico e squisito. Ordinò allora una torta allo zibibbo, un piatto di pesche, una bottiglia di Cipro.

E tutto si disegnava leggiero, si concretava a poco a poco sulla camicia miracolosa.

Prataiolo mangiava tranquillo, seduto sull'erba, quando vide sulla strada maestra un mendicante che lo fissava muto e supplichevole.

- Posso offrirti, compagno?

Il vecchio non si fece pregare e divise il banchetto con lui.

Ma quando vide la comparsa meravigliosa delle portate, pregò il ragazzo di donargli la tela magica.

- Ti darò questo mio bastone in compenso.

- E che vuoi che ne faccia?

- Se tu sapessi la virtù di questo mio bastone, accetteresti con gioia. Contiene mille piccole celle ed ogni cella racchiude un cavaliere armato e un cavallo bardato di tutto punto. Ogni volta che avrai bisogno d'aiuto ti basterà comandare: " Fuori l'armata!".

Prataiolo aveva sempre sognato d'essere generale e non poté resistere a quella tentazione: accettò il cambio e si mise in cammino. Ma dopo poche ore era già pentito.

- Ho fame e non ho più la mia camicia! A che può giovarmi un 'armata quando lo stomaco è vuoto?

L'appetito cresceva e per distrarsi egli puntò in terra il bastone e comandò:

- Fuori l'armata!

Ed ecco un fruscìo dal di dentro, poi aprirsi nel legno tante piccole finestre e da ogni finestra uscir fuori un cosino minuscolo come un'ape; poi crescere in pochi secondi, crescere, formare all'intorno una muraglia di cavalli scalpitanti e di cavalieri armati.

Prataiolo guardava trasognato.

- Che cosa comandate, signor generale?

Egli ebbe un'idea.

- Che mi sia riportata la camicia della trisavola!

L'armata partì di gran galoppo, sparve all'orizzonte, e poco dopo era di ritorno con la tela miracolosa.

- L'armata rientri in caserma! ...

Prataiolo puntò il bastone in terra. Cavalli e cavalieri presero a rimpicciolire, in pochi secondi ritornarono minuscoli come api, rientrarono nelle cellette che si rinchiusero sul legno senza lasciar traccia.

Prataiolo era felice.

Riprese la via e giunse ad un mulino.

Il mugnaio era sulla soglia e suonava il flauto: la moglie e i suoi nove figli danzavano intorno. Prataiolo sentì che avvicinandosi gli cresceva una voglia irresistibile di muover le gambe; poi fu costretto da una forza ignorata a ballare con gli altri ballerini.

Sentiva intanto la moglie del mugnaio che danzando gridava furibonda al marito:

- Basta! Basta! Uomo senza cuore! Dacci del pane invece che costringerci a ballare!

Poi rivolgendosi a Prataiolo che ballava con loro:

- Vedete? Questo mascalzone di marito, quando lo si prega di sfamarci, prende il suo flauto dannato e ci costringe a ballare!

Il mugnaio, quando gli piacque, smise di suonare e la moglie, i figli, Prataiolo caddero sfiniti dalla ridda vertiginosa. Prataiolo, riprese le forze, distese la camicia della trisavola e comandò un pranzo magnifico. Invitò il mugnaio e la sua famiglia sbigottita a dividere il pasto. Quelli non si fecero pregare, e giunti alle frutta il mugnaio disse:

- Cedimi la camicia ed io ti do il mio flauto.

Prataiolo accettò il cambio, già sicuro di ciò che doveva fare poco dopo. Giunto, infatti, a dieci miglia dal paese, spedì i mille cavalieri che gli riportarono la tela.

- Ed eccomi ora possessore della camicia, del bastone, del flauto magico... Non posso desiderare di più.

Arrivò verso sera in una città e vide grandi annunci a vivi colori. Si accordava la mano della figlia del Re a chi sapeva guarirla della sua insanabile malinconia.

Prataiolo si presentò subito alla Reggia. Il Re dava quella sera un banchetto di gala agli ambasciatori del Gran Sultano, ma, udita la profferta dello sconosciuto, lo fece passare all'istante. Prataiolo entrò nella sala immensa, e fu abbagliato dallo sfolgorio degli ori e delle gemme.

Sedevano a mensa più di cinquecento persone, con a capo il Re, la Regina e la Principessa, bella ed assorta, pallida come un giglio.

Prataiolo fece legare da un servo le gambe della Principessa, senza che i commensali se n'avvedessero, poi si rifugiò in un angolo e cominciò le prime note. Ed ecco un agitarsi improvviso fra i commensali, un fremere di gambe e di ginocchia... Poi tutti s'alzano d'improvviso, scostano le sedie, cominciano a ballare guardandosi l'un l'altro, spaventati.

Principi, baroni, ambasciatori panciuti, baronesse pingui e venerabili, servi e coppieri, e financo i veltri, i pavoni, i fagiani farciti nei piatti d'oro, tutti si animarono, cominciarono a ballare la danza irresistibile.

- Basta! Basta! Per pietà! - gridavano i più vecchi e i più pingui.

- Avanti! Avanti ancora! - dicevano i più giovani, tenendosi per mano.

La Principessa, legata alla sua sedia, tentava anch'essa d'alzarsi e guardava gli altri, e rideva giubilante. Quando piacque a Prataiolo, il suono cessò e i cinquecento ballerini caddero sfiniti sulle sedie e sui tappeti, le dame senza scarpette e senza parrucca. La Principessa rise per un'ora e quando poté parlare disse al Re:

- Padre mio, costui mi ha risanata ed io sono la sua sposa.

Il Re acconsentì, ma Prataiolo esitava.

- Ho lasciata al paese la mia sorella di latte, bella come il sole e alla quale devo la mia fortuna; vorrei farvela conoscere.

- Partite, dunque, e portatela fra noi - dissero i commensali.

I mille cavalieri comparvero, occupando la sala immensa, fra lo stupore generale.

- Mi sia portata Ciclamina, la mia piccola sorella -. E l'armata attraversò la Reggia, le sale, gli scaloni, con gran fragore. Poco dopo era di ritorno con la sorella Ciclamina. La fanciulla fu trovata così bella, che un ambasciatore se ne innamorò all'istante.

E in uno stesso giorno furono celebrate le doppie nozze.


fonte:http://piccolerime.interfree.it

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Messaggio da Beldanubioblu » dom giu 04, 2006 5:13 pm

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La cavallina del negromante



C'era una volta un pover'uomo rimasto vedovo, con un figlio chiamato Candido; egli possedeva per tutta fortuna un campicello e tre buoi. Candido, che era un bimbo sveglio e intelligente, giunti agli otto anni disse al padre:

- Vorrei andare a scuola...

- Non ho danaro sufficiente, figlio mio!

- Vendete uno dei buoi.

Il padre restò pensoso, poi si decise. Alla fiera seguente vendette uno dei buoi e col danaro ricavato mandò Candido alla scuola.

Candido imparava rapidamente e i maestri erano sbigottiti della sua intelligenza.

Quando seppe leggere e scrivere, decise di mettersi pel mondo alla ventura. Si vestì d'un abito nero da un lato, bianco dall'altro e si mise in cammino. Per via incontrò un signore a cavallo:

- Dove vai, ragazzo mio?

- A cercar lavoro.

- Sai leggere?

- Leggere e scrivere.

- Allora non fai per me e il signore proseguì la via. Candido restò sbigottito, poi si tolse l'abito, lo vestì a rovescio, corse attraverso i campi fino a trovarsi una seconda volta sulla strada dello sconosciuto; questi non lo riconobbe:

- Dove vai, ragazzo mio?

- A cercar lavoro.

- Sai leggere?

- Né leggere né scrivere.

- Sta bene. Sali in groppa, dietro di me.

Candido salì sul cavallo dello sconosciuto e dopo molti giorni di cammino giunsero ad un castello circondato da mura altissime. Nessuno venne a riceverli; discesero nel cortile deserto e il signore condusse egli stesso il suo cavallo alla scuderia; poi disse a Candido:

- Non vedrai qui dentro persona viva; ma non t'inquietare; avrai ogni cosa che ti talenta e un lauto stipendio.

- Quali sono le mie incombenze, signoria?

- Dovrai aver cura dei cavalli che ho nelle mie scuderie, non altro. Oggi devo partire per un viaggio lunghissimo, e non ritornerò che fra un anno e un giorno: il mio castello è nelle tue mani. Addio!

Il barone partì.

Candido, rimasto solo, curava diligentemente i cavalli. Quattro volte al giorno trovava la mensa imbandita nella vasta sala da pranzo, senza mai vedere anima viva né udir voce umana; mangiava, beveva, passeggiava per le sale e pel parco. Un giorno vide tra gli alberi trasparire una veste azzurra: era una fanciulla bellissima che fuggiva verso le scuderie.

Candido la raggiunse e la principessa si rivolse a lui con volto supplichevole.

- Sono uno dei cavalli che voi avete in custodia: un pomellato bianco, il terzo a destra di chi entra. Sono figlia del Re di Corelandia e il barone negromante m'ha cangiata in cavallo perché non lo volli per marito... Se il barone, al suo ritorno, sarà contento dei vostri servigi, per ricompensarvi vi dirà di scegliere uno dei cavalli; e voi scegliete me, non avrete a pentirvene.

Candido promise e si diede a leggere i libri del barone e apprese i segreti della negromanzia. Dopo un anno il barone era di ritorno al castello.

- Sono soddisfatto dei tuoi servigi, e poiché l'anno è passato, eccoti una borsa di monete d'oro. Vieni nelle scuderie, dove potrai sceglierti un cavallo pel tuo ritorno al paese.

Scesero nelle scuderie e Candido, dopo aver finto qualche esitazione, indicò il pomellato bianco.

- Scelgo quello.

- Come? Quella rozza? Non sei veramente buon intenditore; guarda i magnifici cavalli che le son vicini!

- Mi piace quella e non ne voglio altri.

- Sia pure disse il barone; e pensò: "Servo scaltro! Deve conoscere il mio segreto; ma lo saprò raggiungere a mezza via!".

Candido prese la cavallina pomellata e partì. Appena fuori del castello, essa riapparve nelle forme della principessa.

- Grazie, amico mio. Ritorna presso tuo padre, ed io ritorno alla Corte di Corelandia, dove tu dovrai trovarti fra un anno e un giorno.

E disparve.

Candido si diresse al paese natìo. Giunse dopo molti giorni alla capanna e si gettò nelle braccia del padre, che stentava a riconoscerlo.

- Siamo ricchi, padre mio, e bisogna goderci il nostro danaro!

E gli presentò la borsa e incominciarono pei due giorni di felicità ed agiatezza. Ma, poiché tutto ha una fine, anche il gruzzolo giunse all'ultimo scudo.

- Figlio mio, siamo ritornati alla miseria di prima!

Non inquietatevi! Domattina andremo alla fiera per vendere un magnifico cavallo.

- Un cavallo? Dove lo posso prendere?

- Poco importa: domattina l'avrete e ne riceverete trecento scudi; ma badate di non cedere la briglia al compratore.

- La briglia si cede con la bestia - osservò il vecchio .

- Non lasciate la briglia, vi ripeto, o mi esporrete ad un pericolo irreparabile.

- Sta bene, la riporterò a casa, benché non sia costume.

All'indomani il vecchio udì nitrire alla porta e vi trovò un magnifico cavallo; ma cercò invano suo figlio perché l'accompagnasse:

"Mi avrà forse già preceduto al mercato". E si mise in cammino. Giunto in paese non trovò suo figlio e fu circondato subito dai compratori.

- Bello il vostro cavallo. Quanto volete?

- Trecento scudi e la briglia per me.

- Facciamo duecentocinquanta.

- Non cedo d'un soldo!

S'avanzò un mercante sconosciuto dai capelli rossi e dagli occhi di brace (era il barone travestito) che fece l'offerta:

- È caro. Ma la bestia mi piace e non mercanteggio. Datemi la briglia ch'io lo possa condurre.

- La briglia non la cedo a nessun patto.

- Allora non ne facciamo nulla.

E lo sconosciuto s'allontanò minaccioso.

Il cavallo fu venduto a un carrettiere che non pretese la briglia; condusse la bestia per la criniera e la chiuse con altri cavalli nella sua scuderia. Ma all'alba il cavallo non c'era più. Era Candido che, grazie ai segreti appresi nei libri magici, s'era trasformato in cavallo, poi in uomo ancora, per ritornarsene dal padre. Padre e figlio godettero i trecento scudi e vissero lieti per molti giorni.

Giunti all'ultima moneta, Candido disse:

- Non c'è più danaro. L'altra volta mi trasformai in cavallo nero, domattina mi trasformerò in cavallo bianco e mi porterete al mercato; ma badate bene di non cedere la briglia, o tutto è finito per me.

All'alba il vecchio sentì nitrire nel cortile, e vide un cavallo bellissimo, candido come la neve. Lo prese per la briglia e si diresse al mercato.

I compratori circondarono la bestia; s'avanzò il mercante sconosciuto, dai capelli rossi e dagli occhi fiammeggianti.

- Bella bestia, la vostra; quanto volete?

- Cinquecento scudi.

- Sono troppi. Ma ve li do. Lasciatemela prima provare.

E lo sconosciuto salì in sella, cacciò gli speroni nei fianchi della bestia che fuggì di galoppo, lasciando il povero vecchio senza cavallo e senza briglia.

Giunto dinanzi a un maniscalco lo sconosciuto scese di groppa, entrò nella fucina:

- Maniscalco, il mio cavallo non è ferrato. Fategli all'istante quattro ferri di quattrocento libbre ciascuno.

- Quattrocento libbre? Voi scherzate, signore!

- Non scherzo, eseguite senza commenti e sarete ben pagato.

Mentre il barone e l'uomo parlavano, il cavallo era stato legato ad un anello del muro. Alcuni bimbi gli furono intorno e presero a tormentarlo.

- Staccatemi, bambini belli!

- Un cavallo che parla! e i piccoli esultarono di gioia.

- Che dice dunque?

- Dice di staccarlo.

- Sì, staccatemi, bambini, e vi divertirò con un bel giuoco.

Il più alto e il più audace staccò il cavallo, che si convertì subito in lepre e disparve nei campi. Il barone uscì dalla fucina col maniscalco.

- Dov'è il mio cavallo?

- S'è mutato in lepre ed è fuggito attraverso i campi.

Il barone negromante si mutò in cane e si precipitò sulle sue tracce.

Candido, incalzato da presso, si mutò in airone e il negromante lo seguì nell'aria sotto forma d'uno sparviero, e giunsero così nella capitale della Corelandia; lo sparviero stava per ghermire l'airone quando questo si mutò in un anello e infilò il dito della principessa che sospirava alla finestra del castello.

Il negromante riprese la sua forma umana e si presentò a palazzo per offrire le sue cure al Re, che era sofferente d'un morbo insanabile.

- Prometto di guarirvi, Sire; ma ad un patto.

- Domandate e qualsiasi pretesa vostra sarà appagata.

- Voglio l'anello d'oro che porta in dito vostra figlia.

- Questo soltanto, volete? Io son disposto a ben altro!

- Non domando altro, Maestà.

Intanto la principessa aveva chiuse le finestre e stava togliendosi gli anelli; quando si tolse quello d'oro le apparve Candido sorridente.

- Oh Candido! Come siete qui?

Candido narrò i casi suoi:

- Il negromante è nel castello ed ha promesso a vostro padre di guarirlo a patto gli sia dato il vostro anello; voi acconsentite, ma nell'atto di passarlo al dito del negromante, lasciatelo cadere in terra e tutto sarà per il meglio.

La principessa promise.

All'indomani il vecchio Re fece chiamare la figlia nella sala del trono e le presentò il negromante travestito da medico.

- Figlia mia, questo medico famoso non domanda, per rendermi la salute, che il tuo anello d'oro.

- Acconsento - disse la principessa, e fece atto di passare l'anello al dito del negromante, ma lo lasciò cadere ad arte sul pavimento.

L'anello si cangiò in fava e il negromante in gallo, per inghiottirla, ma la fava si cangiò in volpe e divorò il gallo.

Candido riprese la sua forma di prima, dinanzi a tutta la Corte sbigottita del prodigio.

La principessa presentò al padre il suo liberatore e quel giorno stesso furono celebrate le nozze.
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Messaggio da Beldanubioblu » dom giu 04, 2006 5:57 pm

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La danza degli Gnomi



Quando l'alba si levava,

si levava in sulla sera,

quando il passero parlava

c'era, allora, c'era... c'era...


... una vedova maritata ad un vedovo. E il vedovo aveva una figlia della sua prima moglie e la vedova aveva una figlia del suo primo marito. La figlia del vedovo si chiamava Serena, la figlia della vedova si chiamava Gordiana. La matrigna odiava Serena ch'era bella e buona e concedeva ogni cosa a Gordiana, brutta e perversa.

La famiglia abitava un castello principesco, a tre miglia dal villaggio, e la strada attraversava un crocevia, tra i faggi millenari di un bosco; nelle notti di plenilunio i piccoli gnomi vi danzavano in tondo e facevano beffe terribili ai viaggiatori notturni.

La matrigna che sapeva questo, una domenica sera, dopo cena, disse alla figlia:

- Serena, ho dimenticato il mio libro di preghiere nella chiesa del villaggio: vammelo a cercare.

- Mamma, perdonate... è notte.

- C'è la luna più chiara del sole!

- Mamma, ho paura! Andrò domattina all'alba...

- Ti ripeto d'andare! - replicò la matrigna.

- Mamma, lasciate venire Gordiana con me...

- Gordiana resta qui a tenermi compagnia. E tu va'!

Serena tacque rassegnata e si pose in cammino. Giunse nel bosco e rallentò il passo, premendosi lo scapolare sul petto, con le due mani.

Ed ecco apparire fra gli alberi il crocevia spazioso, illuminato dalla luna piena.

E gli gnomi danzavano in mezzo alla strada.

Serena li osservò fra i tronchi, trattenendo il respiro. Erano gobbi e sciancati come vecchietti, piccoli come fanciulli, avevano barbe lunghe e rossigne, giubbini buffi, rossi e verdi, e cappucci fantastici. Danzavano in tondo, con una cantilena stridula accompagnata dal grido degli uccelli notturni. Serena allibiva al pensiero di passare fra loro; eppure non c'era altra via e non poteva ritornare indietro senza il libro della matrigna. Fece violenza al tremito che la scuoteva, e s'avanzò con passo tranquillo.

Appena la videro, gli gnomi verdi si separarono da quelli rossi e fecero ala ai lati della strada, come per darle il passo. E quando la bimba si trovò fra loro la chiusero in cerchio, danzando. E uno gnomo le porse un fungo e una felce.

- Bella bimba, danza con noi!

- Volentieri, se questo può farvi piacere...

E Serena danzò al chiaro della luna, con tanta grazia soave che gli gnomi si fermarono in cerchio, estatici ad ammirarla.

- Oh! Che bella graziosa bambina! - disse uno gnomo.

Un secondo disse: - Ch'ella divenga della metà più bella e più graziosa ancora.

Disse un terzo:

- Oh! Che bimba soave e buona!

Un quarto disse: - Ch'ella divenga della metà più ancora bella e soave!

Disse un quinto: - E che una perla le cada dall'orecchio sinistro ad ogni parola della sua bocca.

Un sesto disse: - E che si converta in oro ogni cosa ch'ella vorrà.

- Così sia! Così sia! Così sia!... - gridarono tutti con voce lieta e crepitante.

Ripresero la danza vertiginosa, tenendosi per mano, poi spezzarono il cerchio e disparvero. Serena proseguì il cammino, giunse al villaggio e fece alzare il sacrestano perché la chiesa era chiusa.

Ed ecco che ad ogni parola una perla le usciva dall'orecchio sinistro, le rimbalzava sulla spalla e cadeva per terra. Il sagrestano si mise a raccoglierle nella palma della mano. Serena ebbe il libro e ritornò al castello paterno. La matrigna la guardò stupita. Serena splendeva di una bellezza mai veduta:

- Non t'è occorso nessun guaio, per via?

- Nessuno, mamma.

- E raccontò esattamente ogni cosa. E ad ogni parola una perla le cadeva dall'orecchio sinistro.

La matrigna si rodeva d'invidia.

- E il mio libro di preghiere?

- Eccolo, mamma.

La logora rilegatura di cuoio e di rame s'era convertita in oro tempestato di brillanti.

La matrigna trasecolava.

Poi decise di tentare la stessa sorte per la figlia Gordiana. La domenica dopo, alla stessa ora, disse alla figlia di recarsi a prendere il libro nella chiesa del villaggio.

- Così sola? Di notte? Mamma, siete pazza?

E Gordiana scrollò le spalle.

- Devi ubbidire, cara, e sarò un gran bene per te, te lo prometto.

- Andateci voi!

Gordiana, non avvezza ad ubbidire, smaniò furibonda e la madre fu costretta a cacciarla con le busse, per deciderla a partire.

Quando giunse al crocevia, inargentato dalla luna, i piccoli gnomi che danzavano in tondo si divisero in due schiere ai lati della strada, poi la chiusero in cerchio; e uno si avanzò porgendole il fungo e la felce e invitandola garbatamente a danzare.

- Io danzo con principi e con baroni: non danzo con brutti rospi come voi.

E gettò la felce e il fungo e tentò di aprire la catena dei piccoli ballerini con pugni e con calci.

- Che bimba brutta e deforme! - disse uno gnomo.

Un secondo disse: - Ch'ella diventi della metà più ancora cattiva e villana.

- E che sia gobba!

- E che sia zoppa!

- E che uno scorpione le esca dall'orecchio sinistro ad ogni parola della sua bocca.

- E che si copra di bava ogni cosa ch'ella toccherà.

- Così sia! Così sia! Così sia!... - gridarono tutti con voce irosa e crepitante.

Ripresero la danza prendendosi per mano, poi spezzarono la catena e disparvero.

Gordiana scrollò le spalle, giunse alla chiesa, prese il libro e ritornò al castello.

Quando la madre la vide dié un urlo:

- Gordiana, figlia mia! Chi t'ha conciata così?

- Voi, madre snaturata, che mi esponete alla mala ventura.

E ad ogni parola, uno scorpione dalla coda forcuta le scendeva lungo la persona.

Trasse il libro di tasca e lo diede alla madre; ma questa lo lasciò cadere con un grido d'orrore.

- Che schifezza! È tutto lordo di bava!

La madre era disperata di quella figlia zoppa e gobba, più brutta e più perversa di prima. E la condusse nelle sue stanze, affidandola alle cure di medici che s'adoprarono inutilmente per risanarla.

Si era intanto sparsa pel mondo la fama della bellezza sfolgorante e della bontà di Serena, e da tutte le parti giungevano richieste di principi e di baroni; ma la matrigna perversa si opponeva ad ogni partito.

Il Re di Persegonia non si fidò degli ambasciatori, e volle recarsi in persona al castello della bellezza famosa. Fu così rapito dal fascino soave di Serena che fece all'istante richiesta della sua mano.

La matrigna soffocava dalla bile; ma si mostrò ossequiosa al re e lieta di quella fortuna. E già macchinava in mente di sostituire a Serena la figlia Gordiana.

Furono fissate le nozze per la settimana seguente. Il giorno dopo il Re mandò alla fidanzata orecchini, smaniglie, monili di valore inestimabile.

Giunse il corteo reale per prendere la fidanzata. La matrigna coprì dei gioielli la figlia Gordiana e rinchiuse Serena in un cofano di cedro.

Il Re scese dalla carrozza dorata e aprì lo sportello per farvi salire la fidanzata. Gordiana aveva il volto coperto d'un velo fitto e restava muta alle dolci parole dello sposo.

- Signora mia suocera, perché la sposa non mi risponde?

- È timida, Maestà.

- Eppure l'altro giorno fu così garbata con me...

- La solennità di questo giorno la rende muta...

Il Re guardava con affetto la sposa.

- Serena, scopritevi il volto, ch'io vi veda un solo istante!

- Non è possibile, Maestà - interruppe la matrigna - il fresco della carrozza la sciuperebbe! Dopo le nozze si scoprirà.

il Re cominciava ad inquietarsi.

Proseguirono verso la chiesa e già la madre si rallegrava di veder giungere a compimento la sua frode perversa.

Ma passando vicino ad un ruscello, Gordiana, smemorata ed impaziente, si protese dicendo:

- Mamma, ho sete!

Non aveva detto tre parole che tre scorpioni neri scesero correndo sulla veste di seta candida.

Il Re e il suocero balzarono in piedi, inorriditi, e strapparono il velo alla sposa. Apparve il volto orribile e feroce di Gordiana.

- Maestà, queste due perfide volevano ingannarci.

Il suocero e il Re fecero arrestare il corteo a mezza strada. Il Re salì a cavallo e volle ritornare, solo, di gran galoppo, al castello della fidanzata.

Salì le scale e prese ad aggirarsi per le sale chiamando ad alta voce.

- Serena! Serena! Dove siete?

- Qui, Maestà!

- Dove?

- Nel cofano di cedro!

Il Re forzò il cofano con la punta della spada e sollevò il coperchio. Serena balzò in piedi, pallida e bella. Il re la sollevò fra le braccia, la pose sul suo cavallo e ritornò dove il corteo l'aspettava. Serena prese posto nella berlina reale, tra il padre e il fidanzato.

Furono celebrate le nozze regali.

Della matrigna e della figlia perversa, fuggite attraverso i boschi, non si ebbe più alcuna novella.

(Guido Gozzano)


Luciella
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Messaggio da Beldanubioblu » dom giu 04, 2006 5:59 pm

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I tre talismani





Quando i polli ebbero i denti
e la neve cadde nera
(bimbi state bene attenti)


c'era allora, c'era... c'era.. .
... un vecchio contadino che aveva tre figliuoli. Quando sentì vicina l'ora della morte li chiamò attorno al letto per l'estremo saluto.
- Figliuoli miei, io non son ricco, ma ho serbato per ciascuno di voi un talismano prezioso. A te, Cassandrino, che sei poeta e il più miserabile, lascio questa borsa logora: ogni volta che v'introdurrai la mano troverai cento scudi. A te, Sansonetto, che sei contadino e avrai da sfamare molti uomini, lascio questa tovaglia sgualcita: ti basterà distenderla in terra o sulla tavola, perché compaiano tante portate per quante persone tu voglia. A te, Oddo, che sei mercante e devi di continuo viaggiare, lascio questo mantello: ti basterà metterlo sulle spalle e reggerlo alle cocche delle estremità, con le braccia tese, per diventare invisibile e farti trasportare all'istante dove tu voglia.
Il buon padre spirò poco dopo: e i tre figli presero piangendo il loro talismano e si separarono.
Cassandrino giunse in città, comperò un palazzo meraviglioso, abiti gioielli, cavalli e prese a condurre la vita del gran signore. Tutti lo dicevano un principe in esilio ed egli stesso cominciò a crederlo; tanto che gli venne il desiderio di far visita al Re. Si vestì degli abiti e dei gioielli più sfolgoranti e si presentò a palazzo.
Una guardia gli fermò il passo.
- Principe, che desiderate?
- Vedere il re.
- Favorite il vostro nome, e se sua Maestà crederà bene, vi riceverà.
- Meno cerimonie! Eccovi cento scudi.
La guardia s'inchinò fino a terra e Cassandrino passò innanzi: alla porta reale quattro alabardieri gli fermarono il passo.
- Principe, dove andate?
- Dal re.
- Non ci si presenta così a Sua Maestà. Dite il vostro nome e se il Re vorrà ricevervi, passerete.
Cassandrino offrì cento scudi ad ogni alabardiere. Ma questi esitavano.
- Non basta? Prendete ancora.
Gli alabardieri, vinti dall'oro, cedettero il passo. Cassandrino diventò amico del Re.
Dopo qualche giorno in tutta la Corte si parlava meravigliati della sua generosità favolosa. Ovunque egli passava distribuiva mance di cento scudi, e servi, cuochi, fantesche, fanti, valletti, s'inchinavano esultanti. La cameriera della principessa, figlia unica del Re, più beneficata di tutti e più scaltra degli altri, cominciò a sospettare qualche magia nel principe generoso e ne parlò alla sua padrona, una sera, togliendole le calze.
- Principessa, la borsa del forestiero è fatata; non vedete com'è piccola: e tuttavia ne trae ogni sera migliaia di scudi... Bisognerebbe prendergliela.
- Bisognerebbe - assentì la principessa - ma come fare?
- Egli siede ogni sera alla vostra sinistra; versategli nel bicchiere un soporifero; s'addormenterà e l'impresa sarà facile.
Così fu fatto. La sera seguente, alle frutta, il principe Cassandrino cominciò ad appisolarsi, poi chinò la testa sulla tovaglia e, fra lo stupore del Re e dei convitati, s'addormentò. Fu portato in una camera del palazzo e disteso sul letto.
L'ancella, vigilante, gli prese la borsa e la portò alla sua padrona. Poi, di comune intesa, confidarono a quattro sgherri il giovine addormentato e lo fecero deporre fuori delle porte, in un campo deserto. All'alba, Cassandrino si svegliò intirizzito e comprese il giuoco che gli era stato fatto.
- Mi vendicherò - egli disse; e lasciò la città e prese la via del paese nativo.
Giunse dal fratello contadino, che lo accolse a braccia aperte e lo fece sedere presso il focolare, tra la moglie ed i figli.
- Fratello mio Cassandrino, e la tua borsa fatata?
- Ohimè! Mi fu rubata e nel modo più fanciullesco -. E raccontò al fratello la disavventura. - Tu potresti aiutarmi a recuperarla.
- Come?
- Prestandomi per qualche tempo la tua tovaglia magica.
Il fratello esitava.
- Te ne prego, non la terrò che pochi giorni, e ti sarà riconsegnata.
Sansonetto diede la tovaglia fatata a Cassandrino, supplicandolo di restituzione sicura. Cassandrino ritornò in città, vestì abiti dimessi, e si presentò a palazzo come cuoco disimpiegato. Il Ministro delle Pietanze lo guardò incredulo e sprezzante e gli assegnò l'ultimo posto nella burocrazia culinaria.
un giorno che il Re dava un pranzo di gala agli ambasciatori del Sultano, Cassandrino disse al capo dei cuochi:
- Lasciate a me solo l'incarico di tutto: vi prometto un pranzo mai più visto.
Il capo sghignazzò, sprezzante:
- Povero sguattero scimunito!
Ma Cassandrino insistette con tanta convinzione che il capo disse:
- Rispondi di tutto sulla tua testa?
- Sulla mia testa.
I cuochi e il loro capo andarono a passeggio, e Cassandrino restò nelle cucine. Pochi minuti prima di mezzogiorno salì nella sala da pranzo e distese la tovaglia miracolosa in un angolo della tavola immensa.
- Tovaglia! Tovaglia! Sia servito un banchetto di cinquecento coperti, tale da sbalordire il Re, la Corte, gli Ambasciatori, tale da confondere tutti i cuochi della terra!
Ed ecco biancheggiare le tovaglie finissime, scintillare i cristalli e le argenterie, e profondersi le pietanze più raffinate, i pasticci dall'architettura fantastica, le cacciagioni prelibate, i pesci rari, i frutti d'oltre mare, i vini delle isole del sole. Giunse l'ora del pranzo e i commensali furono entusiasti. Il Re chiamò il capo dei cuochi e volle onorarlo dei suoi complimenti in presenza di tutta la Corte. Il capo, da quel giorno, affidò a Cassandrino la direzione delle cucine, appropriandosi tutti gli elogi.
Cassandrino saliva ogni giorno, solo, nella sala da pranzo, pochi istanti prima del pasto: si chiudeva a chiave, e ne usciva quasi subito; le mense reali erano imbandite.
La servitù cominciava a sospettarlo di stregoneria.
L'ancella della principessa, più scaltra degli altri, lo spiò un giorno dalla toppa e vide l'apparizione improvvisa delle vivande.
Subito confidò la cosa alla padrona.
- Principessa, l'uomo dalla borsa è ancora nel palazzo sotto le spoglie del capo dei cuochi; e possiede una tovaglia che opera tutto l'incantesimo!
- Bisogna avere quella tovaglia! - disse la principessa.
- L'avremo! - assicurò l'ancella. E la notte seguente forzò lo stipo dove Cassandrino chiudeva la tovaglia e la sostituì con una tovaglia comune.
L'indomani, all'ora di pranzo, Cassandrino distese inutilmente la tovaglia e ripeté invano la formula imperativa. Le tavole restavano deserte.
- Eccomi gabbato una seconda volta! Ma non importa, mi vendicherò!
E uscì dal palazzo e ritornò al paese natìo. Si presentò al fratello mercante, che lo abbracciò e gli domandò delle sue avventure. Cassandrino gli confidò i suoi casi non lieti.
- Mi hanno rubato la borsa e la tovaglia, ma se tu volessi potresti aiutarmi a ricuperare il tutto.
- E come, fratello mio?
- Imprestandomi per qualche giorno il mantello fatato.
Il mercante esitò; il mantello che rendeva invisibili e aboliva le distanze gli era necessario pel suo commercio. Ma Cassandrino tanto supplicò che ottenne il mantello. Col mantello aperto e sorretto alle estremità dalle braccia tese, giunse in un attimo alla città, salì invisibile le scale del palazzo, s'introdusse nelle stanze della principessa: questa dormiva e Cassandrino le coprì il volto con un lembo del mantello.
- Per la virtù di questo mantello, desidero essere trasportati entrambi alle Isole Fortunate.
Il mantello li avvolse come in una nube cupa e vertiginosa e pochi secondi dopo li deponeva in un boschetto di palmizi, nell'isole remote.
La principessa - vedendosi in balia del suo nemico - finse di rassegnarsi all'esilio con lui, ma questo fece per scoprire il segreto della sua potenza; e tanto seppe ingannarlo che gli strappò la confidenza del mantello. Una notte che Cassandrino dormiva col panno prezioso ripiegato sotto la nuca, glielo sottrasse cautamente.
- Per virtù di questo mantello voglio essere trasportata nel palazzo di mio padre il Re.
Cassandrino si svegliò mentre il mantello avvolgeva la principessa in una nube cupa e vertiginosa e la rapiva nell'azzurro verso il regno del padre.
- Eccomi ancora derubato da quella perfida -. E si mise a singhiozzare disperato.
Passò molti mesi nell'isola, mantenendosi di frutti. Un giorno, vagando sulla riva del mare, scoperse un albero dai pomi enormi e vermigli. Ne mangiò uno e lo trovò squisito. Ma sentì tosto per tutto il corpo un prurito inquietante.
Si guardò le mani, le braccia, si specchiò ad una fonte e si vide coperto di squame verdi.
- Oh! povero me! Che cos'è questo?
E si palpava la pelle squammosa come quella d'un serpente. Cassandrino fu tentato da altri pomi gialli che crescevano sopra un albero vicino. Ed ecco un nuovo prurito, e le squamme verdi sparire a poco a poco e la pelle ritornargli bianca per tutta le persona. Allora prese ad alternare le due specie di frutti e si divertiva a vedersi imbiancare e rinverdire.
Dopo vari mesi di esilio passò all'orizzonte una fusta di corsari e Cassandrino tanto s'agitò gridando che quelli si appressarono alla spiaggia e l'accolsero sul legno. Ma prima di lasciare l'isola il giovane raccolse tre pomi dell'una e dell'altra pianta e li mise in tasca.
Fu così rimpatriato e ritornò alla città della principessa. La domenica seguente si travestì da pellegrino, collocò un deschetto sui gradini della chiesa dove la figlia del Re si recava alla messa e vi pose sopra i tre pomi bellissimi che facevano inverdire.
La principessa passò, seguita dall'ancella, e si soffermò ammirata, ma non riconobbe il falso pellegrino. Si rivolse all'ancella: - Tersilla, andate a comperare quelle mele.
La donna s'avvicinò al pellegrino:
- Quanto volete di questi frutti?
- Trecento scudi.
- Avete detto?
- Trecento scudi.
- Siete pazzo? Cento scudi al pomo!
- Se li volete, bene: altrimenti son vane le parole.
La donna ritornò dalla sua padrona.
- Trecento scudi! avete fatto bene a non prenderli.
Ed entrarono in chiesa per la messa.
Ma durante la cerimonia la principessa, ginocchioni ai piedi dell'altare, con gli occhi al cielo e le mani congiunte, non faceva che pensare ai pomi del pellegrino. Appena uscita si fermò ancora ad ammirarli, poi disse all'ancella: - Andate a comperare quei frutti per trecento scudi: mi rifarò con la borsa miracolosa.
La donna s'avvicinò e parlò col pellegrino.
- Perdonate, mia cara, non più trecento, ma seicento scudi voglio dei pomi.
- Vi burlate di me?
- Bisognava prenderli prima. Ora il prezzo è doppio.
La donna ritornò dalla sua padrona, poi dal pellegrino e fece la compera. A mensa i pomi furono presentati sopra un vassoio d'oro e formarono l'ammirazione di tutti. Alle frutta il Re ne prese uno per sé, ne diede uno alla Regina e uno alla principessa e furono trovati deliziosi. Ma i mangiatori non erano giunti a metà che cominciarono a guardarsi irrequieti l'un l'altro e si videro inverdire e coprirsi di squamme serpentine. Avvenne una scena di disperazione e di terrore.
I Reali vennero trasportati nelle loro stanze e la novella terribile si diffuse in tutto il regno.
Furono consultati invano i medici più famosi. Allora si pubblicò un bando: chiunque facesse scomparire la pelle verde alla famiglia reale otteneva la mano della principessa o, se ammogliato, la metà del regno.
Cassandrino lasciò sfollare i medici, i chirurghi, le sortiere, i negromanti, e si presentò dopo qualche giorno a palazzo reale.
Fu ammesso nella stanza degli ammalati.
- Promettete dunque di farci guarire?
- Lo prometto.
- E quando comincerete la cura?
- Anche subito, se volete.
Cassandrino fece denudare il Re fino alla cintola; poi trasse da una cesta un fascio d'ortiche e con le mani inguantate cominciò a flagellare le spalle reali.
- Basta! Basta! - urlava il Re.
- Non ancora, Maestà.
Poi passò alla Regina e ripeté sulle spalle di lei la stessa funzione.
Quando i due Sovrani furono deposti sul letto, semivivi, Cassandrino porse loro i frutti delle isole lontane.
Ed ecco i volti imbiancarsi a poco a poco, le squamme diradarsi, svanire del tutto.
I Reali erano esultanti.
Venne la volta della principessa.
Cassandrino volle restar solo con lei, e si chiuse a chiave nella sua stanza.
Giunsero tosto le urla e i gemiti strazianti. La cura incominciava.
- Aiuto! Basta! Basta!
La cura proseguiva.
- Muoio! Basta! Aiuto! Per carità!
Dopo un'ora Cassandrino uscì dalla sua stanza, lasciando la principessa semiviva.
- E la pelle? - domandarono i Sovrani.
- Gliela imbiancherò domani. Domani ritornerò per ultimare la cura.
Cassandrino andò a trovare un abate, amico suo, e gli disse:
- Domani, verso mezzogiorno, trovati a palazzo reale per confessare la principessa che versa in pericolo di vita.
L'abate promise di trovarvisi.
Il giorno dopo Cassandrino si presentò a palazzo: - Sacra Corona, oggi farò l'ultimo trattamento della principessa, ma siccome potrebbe soccombere...
- Gran Dio! Che dite mai? - urlarono i Sovrani.
- Ho pensato bene di avvisare un abate, per gli ultimi conforti. Sarà qui verso mezzogiorno.
Poi salì dalla principessa: - Oggi vi sottoporrò all'ultimo trattamento, e poiché potrebbe essere fatale, hanno avvisato un abate per la tranquillità della vostra coscienza.
La principessa aveva gli occhi fissi dallo spavento. Sopraggiunse l'abate che fu lasciato solo con l'ammalata e Cassandrino attese in un gabinetto attiguo.
Quando il confessore uscì dalla stanza, Cassandrino disse: - Amico mio, favoriscimi alcuni istanti la tua veste.
- Sarebbe un insulto alla mia divisa.
- Non temere cose sacrileghe. È per ottimo fine. - Cassandrino si vestì della veste sacerdotale e si presentò alla principessa che gemeva nella sua alcova.
- Figliuola mia, temo abbiate dimenticato qualche cosa nella confessione delle vostre colpe... Meditate, cercate ancora... Pensate che siete forse sul punto di presentarvi al giudice supremo.
La principessa allibiva, singhiozzando.
- Vediamo - diceva Cassandrino, imitando la voce dell'amico - non ricordate d'aver sottratto... rubato qualche cosa?
- Ah, padre! - singhiozzò la principessa. - Ho rubato una borsa miracolosa a un principe forestiero.
- Bisogna restituirla! Confidatela a me e gliela farò avere.
La principessa indicò col gesto stanco uno stipo d'argento: e Cassandrino prese la borsa.
- E altro... altro ancora, non ricordate?
- Ah Padre: ho rubato una tovaglia fatata allo stesso forestiero: prendetela. è là, in quell'arca d'avorio.
- E altro, altro ancora?
- Un mantello, Padre! Un mantello incantato, allo stesso forestiero. È là, in quell'armadio di cedro...
E Cassandrino prese il mantello.
- Sta bene - proseguì il falso prete - ora mordete questo pomo: vi gioverà.
La principessa addentò il frutto e subito le squamme verdi si diradarono lentamente e scomparvero del tutto. Allora Cassandrino si tolse la parrucca e la veste.
- Principessa, mi riconoscete?
- Pietà, pietà! perdonatemi d'ogni cosa! Sono già stata punita abbastanza!
I Sovrani entrarono nella camera della figlia e il Re, vedendola risanata, abbracciò il medico.
- Vi offro la mano della principessa: vi spetta di diritto.
- Grazie, Maestà! Sono già fidanzato con una fanciulla del mio paese.
- Vi spetta allora metà del mio regno.
- Grazie, Maestà! Non saprei che farmene! Sono pago di questa borsa vecchia, di questa tovaglia, di questo mantello logoro...
Cassandrino, fattosi invisibile, prese il volo verso il paese natio, restituì ai fratelli i talismani recuperati e, sposata una compaesana, visse beato fra i campi, senza più tentare l'avventura.




Luciella
Il sole non ti serve per vedere perchè tu luce sei in mezzo al buio...(Lucia Di Iulio)

gluca
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Messaggio da gluca » mer giu 14, 2006 4:51 pm

Bellissima fiaba!

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Beldanubioblu
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[phpBB Debug] PHP Warning: in file [ROOT]/vendor/twig/twig/lib/Twig/Extension/Core.php on line 1266: count(): Parameter must be an array or an object that implements Countable

Messaggio da Beldanubioblu » mer giu 14, 2006 10:37 pm

grazie infinite
mi mancavano un po' i tuoi commenti...
tuto bene??
Notte serena !!!

Lucia
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Beldanubioblu
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Messaggio da Beldanubioblu » gio giu 15, 2006 3:15 am

PIUMADORO E PIOMBOFINO



Piumadoro era orfana e viveva col nonno nella capanna del bosco. Il nonno era carbonaio ed essa lo aiutava nel raccattar fascine e nel far carbone. La bimba cresceva buona, amata dalle amiche e dalle vecchiette degli altri casolari, e bella, bella come una regina.
Un giorno di primavera vide sui garofani della sua finestra una farfalla candida e la chiuse tra le dita.
- Lasciami andare, per pietà!...
Piumadoro la lasciò andare.
- Grazie, bella bambina; come ti chiami?
- Piumadoro.
- Io mi chiamo Pieride del Biancospino. Vado a disporre i miei bruchi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
E la farfalla volò via.
Un altro giorno Piumadoro ghermì, a mezzo il sentiero, un bel soffione niveo trasportato dal vento, e già stava lacerandone la seta leggera.
- Lasciami andare, per pietà!...
Piumadoro lo lasciò andare.
- Grazie, bella bambina. Come ti chiami?
- Piumadoro.
- Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Achenio del Cardo. Vado a deporre i miei semi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
E il soffione volò via.
Un altro giorno Piumadoro ghermì nel cuore d'una rosa uno scarabeo di smeraldo.
- Lasciami andare, per pietà!
Piumadoro lo lasciò andare.
- Grazie, bella bambina. Come ti chiami?
- Piumadoro.
- Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Cetonia Dorata. Cerco le rose di terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
E la cetonia volò via.


Sui quattordici anni avvenne a Piumadoro una cosa strana. Perdeva di peso.
Restava pur sempre la bella bimba bionda e fiorente, ma s'alleggeriva ogni giorno di più.
Sulle prime non se ne dette pensiero. La divertiva, anzi, l'abbandonarsi dai rami degli alberi altissimi e scender giù, lenta, lenta, lenta, come un foglio di carta. E cantava:

Non altre adoro - che Piumadoro...
Oh! Piumadoro,
bella bambina - sarai Regina.

Ma col tempo divenne così leggera che il nonno dovette appenderle alla gonna quattro pietre perché il vento non se la portasse via. Poi nemmeno le pietre bastarono più e il nonno dovette rinchiuderla in casa.
- Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!
E il vecchio sospirava. E Piumadoro s'annoiava, così rinchiusa.
- Soffiami, nonno!
E il vecchio, per divertirla, la soffiava in alto per la stanza. Piumadoro saliva e scendeva, lenta come una piuma.

Non altre adoro - che Piumadoro...
Oh! Piumadoro,
bella bambina - sarai Regina.

- Soffiami, nonno!
E il vecchio soffiava forte e Piumadoro saliva leggera fino alle travi del soffitto.

Oh! Piumadoro,
bella bambina - sarai Regina.

- Piumadoro, che cosa canti?
- Non son io. È una voce che canta in me.
Piumadoro sentiva, infatti, ripetere le parole da una voce dolce e lontanissima.
E il vecchio soffiava e sospirava:
- Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!...



Un mattino Piumadoro si svegliò più leggera e più annoiata del consueto.
Ma il vecchietto non rispondeva.
- Soffiami, nonno!
Piumadoro s'avvicinò al letto del nonno. Il nonno era morto.
Piumadoro pianse.
Pianse tre giorni e tre notti. All'alba del quarto giorno volle chiamar gente. Ma socchiuse appena l'uscio di casa che il vento se la ghermì, se la portò in alto, in alto, come una bolla di sapone...
Piumadoro gettò un grido e chiuse gli occhi.
Osò riaprirli a poco a poco, e guardare in giù, attraverso la sua gran capigliatura disciolta. Volava ad un'altezza vertiginosa.
Sotto di lei passavano le campagne verdi, i fiumi d'argento, le foreste cupe, le città, le torri, le abazie minuscole come giocattoli...
Piumadoro richiuse gli occhi per lo spavento, si avvolse, si adagiò nei suoi capelli immensi come nella coltre del suo letto e si lasciò trasportare.
- Piumadoro, coraggio!
Aprì gli occhi. Erano la farfalla, la cetonia ed il soffione.
- Il vento ci porta con te, Piumadoro. Ti seguiremo e ti aiuteremo nel tuo destino.
Piumadoro si sentì rinascere.
- Grazie, amici miei.

Non altre adoro - che Piumadoro...
Oh! Piumadoro,
bella bambina - sarai Regina.

- Chi è che mi canta all'orecchio, da tanto tempo?
- Lo saprai verso sera, Piumadoro, quando giungeremo dalla Fata dell'Adolescenza.
Piumadoro, la farfalla, la cetonia ed il soffione proseguirono il viaggio, trasportati dal vento.


Verso sera giunsero dalla Fata dell'Adolescenza. Entrarono per la finestra aperta.
La buona Fata li accolse benevolmente. Prese Piumadoro per mano, attraversarono stanze immense e corridoi senza fine, poi la Fata tolse da un cofano d'oro uno specchio rotondo.
- Guarda qui dentro.
Piumadoro guardò. Vide un giardino meraviglioso, palmizi e alberi tropicali e fiori mai più visti.
E nel giardino un giovinetto stava su di un carro d'oro che cinquecento coppie di buoi trascinavano a fatica. E cantava:

Oh! Piumadoro,
bella bambina - sarai Regina.

- Quegli che vedi è Piombofino, il Reuccio delle Isole Fortunate, ed è quegli che ti chiama da tanto tempo con la sua canzone. È vittima d'una malìa opposta alla tua. Cinquecento coppie di buoi lo trascinano a stento. Diventa sempre più pesante. Il malefizio sarà rotto nell'istante che vi darete il primo bacio.
La visione disparve e la buona Fata diede a Piumadoro tre chicchi di grano.
- Prima di giungere alle Isole Fortunate il vento ti farà passare sopra tre castelli. In ogni castello ti apparirà una fata maligna che cercherà di attirarti con la minaccia o con la lusinga. Tu lascerai cadere ogni volta uno di questi chicchi.
Piumadoro ringraziò la Fata, uscì dalla finestra coi suoi compagni e riprese il viaggio, trasportata dal vento.



Giunsero verso sera in vista del primo castello. Sulle torri apparve la Fata Variopinta e fece un cenno con le mani. Piumadoro si sentì attrarre da una forza misteriosa e cominciò a discendere lentamente. Le parve distinguere nei giardini volti di persone conosciute e sorridenti: le compagne e le vecchiette del bosco natìo, il nonno che la salutava.
Ma la cetonia le ricordò l'avvertimento della Fata dell'Adolescenza e Piumadoro lasciò cadere un chicco di grano. Le persone sorridenti si cangiarono subitamente in demoni e in fattucchiere coronate di serpi sibilanti.
Piumadoro si risollevò in alto con i suoi compagni, e capì che quello era il Castello della Menzogna e che il chicco gettato era il grano della Prudenza.
Viaggiarono due altri giorni. Giunsero verso sera in vista del secondo castello.
Era un castello color di fiele, striato di sanguigno. Sulle torri la Fata Verde si agitava furibonda. Una turba di persone livide accennava tra i merli e dai cortili, minacciosamente.
Piumadoro cominciò a discendere, attratta dalla forza misteriosa. Terrorizzata lasciò cadere il secondo chicco. Appena il grano toccò terra il castello si fece d'oro, la Fata e gli ospiti apparvero benigni e sorridenti, salutando Piumadoro con le mani protese. Questa si risollevò e riprese il cammino trasportata dal vento; e capì che quello era il grano della Bontà.
Viaggia, viaggia, giunsero due giorni dopo al terzo castello. Era un castello meraviglioso, fatto d'oro e di pietre preziose.
La Fata Azzurra apparve sulle torri, accennando benevolmente verso Piumadoro.
Piumadoro si sentì attrarre dalla forza invisibile. Avvicinandosi a terra udiva un confuso clamore di risa, di canti, di musiche; distingueva nei giardini immensi gruppi di dame e di cavalieri scintillanti, intesi a banchetti, a balli, a giostre, a teatri.
Piumadoro, abbagliata, già stava per scendere, ma la cetonia le ricordò l'ammonimento della Fata dell'Adolescenza, ed ella lasciò cadere, a malincuore, il terzo chicco di grano. Appena questo toccò terra, il castello si cangiò in una spelonca, la Fata Azzurra in una megera spaventosa e le dame e i cavalieri in poveri cenciosi e disperati che correvano piangendo tra sassi e roveti. Piumadoro, sollevandosi d'un balzo nell'aria, capì che quello era il Castello dei Desideri e che il chicco gettato era il grano della Saggezza.
Proseguì la via, trasportata dal vento.
La pieride, la cetonia ed il soffione la seguivano fedeli, chiamando a raccolta tutti i compagni che incontravano per via. Così che Piumadoro ebbe ben presto un corteo di farfalle variopinte, una nube di soffioni candidi e una falange abbagliante di cetonie smeraldine.
Viaggia, viaggia, viaggia, la terra finì, e Piumadoro, guardando giù, vide una distesa azzurra ed infinita. Era il mare.
Il vento si calmava e Piumadoro scendeva talvolta fino a sfiorare con la chioma le spume candide. E gettava un grido. Ma le diecimila farfalle e le diecimila cetonie la risollevavano in alto, col fremito delle loro piccole ali.
Viaggiarono così sette giorni.
All'alba dell'ottavo giorno apparvero sull'orizzonte i minareti d'oro e gli alti palmizi delle Isole Fortunate.




Nella Reggia si era disperati.
Il Reuccio Piombofino aveva sfondato col suo peso la sala del Gran Consiglio e stava immerso fino alla cintola nel pavimento a mosaico. Biondo, con gli occhi azzurri, tutto vestito di velluto rosso, Piombofino era bello come un dio, ma la malìa si faceva ogni giorno più perversa.
Ormai il peso del giovinetto era tale che tutti i buoi del Regno non bastavano a smuoverlo d'un dito.
Medici, sortiere, chiromanti, negromanti, alchimisti erano stati chiamati inutilmente intorno all'erede incantato.


Non altre adoro - che Piumadoro...
Oh! Piumadoro,
bella bambina - sarai Regina.

E Piombofino affondava sempre più, come un mortaio di bronzo nella sabbia del mare.
Un mago aveva predetto che tutto era inutile, se l'aiuto non veniva dall'incrociarsi di certe stelle benigne.
La Regina correva ogni momento alla finestra e consultava a voce alta gli astrologhi delle torri.
- Mastro Simone! Che vedi, che vedi all'orizzonte?
- Nulla, Maestà... La Flotta Cristianissima che torna di Terra Santa.
E Piombofino affondava sempre.
- Mastro Simone, che vedi?...
- Nulla, Maestà... Uno stormo d'aironi migratori...
- Mastro Simone, che vedi?...
- Nulla, Maestà... Una galea veneziana carica d'avorio.
Il Re, la Regina, i ministri, le dame erano disperati.
Piombofino emergeva ormai con la testa soltanto; e affondava cantando:

Oh! Piumadoro,
bella bambina - sarai Regina.

S'udì, a un tratto, la voce di mastro Simone:
- Maestà!... Una stella cometa all'orizzonte! Una stella che splende in pieno meriggio!
Tutti accorsero alla finestra, ma prima ancora la gran vetrata di fondo s'aprì per incanto e Piumadoro apparve col suo seguito alla Corte sbigottita,
I soffioni le avevano tessuta una veste di velo, le farfalle l'avevano colorata di gemme. Le diecimila cetonie, cambiate in diecimila paggetti vestiti di smeraldo, fecero ala alla giovinetta che entrò sorridendo, bella e maestosa come una dea.
Piombofino, ricevuto il primo bacio di lei, si riebbe come da un sogno, e balzò in piedi libero e sfatato, tra le grida di gioia della Corte esultante.
Furono imbandite feste mai più viste. E otto giorni dopo Piumadoro la carbonaia sposava il Reuccio delle Isole Fortunate.


Luciella
Il sole non ti serve per vedere perchè tu luce sei in mezzo al buio...(Lucia Di Iulio)

gluca
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Messaggio da gluca » mer giu 21, 2006 3:59 pm

Beldanubioblu ha scritto:grazie infinite
mi mancavano un po' i tuoi commenti...
tuto bene??
Notte serena !!!

Lucia
Sì io sto benissimo. Mi dispiace che purtroppo ultimamente riesco a venire davvero poco qui sul forum.
:cry: :cry: :cry:

Appena mi sarà possibile verrò molto più spesso. Sono contento che ti mancavano i miei commenti.

Comunque lo sai che io trovo davvero molto belle tutte le fiabe che scrivi, a me piacciono tantissimo le favole. :D :D :D :D :D

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Beldanubioblu
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Messaggio da Beldanubioblu » sab lug 29, 2006 2:48 am

Il sole non ti serve per vedere perchè tu luce sei in mezzo al buio...(Lucia Di Iulio)

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